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Sostenibilità sociale e ambientale

Ma “sostenibilità” non significa mera adesione agli standard Esg

«Se a prevalere è la compliance e la sua lunga, costosa e – va detto – non sempre qualitativamente adeguata coda burocratica fatta di adempimenti, certificazioni, valutazioni c’è davvero poco margine per operare trasformazioni sociali reali». L'intervento dell'innovation manager del Consorzio Cgm

di Flaviano Zandonai

Lascia una strana sensazione la lettura dell’interessante numero di Vita dedicato alla tassonomia Esg (la copertina nell'immagine di apertura, ndr) che dovrebbe guidare, anzi sta già guidando, la transizione dell’economia finanziaria – cioè della più grande “industria” della nostra epoca – verso obiettivi di sostenibilità ambientale ed equità sociale. Il perché è presto detto: lo strumento proposto – ma il ragionamento si potrebbe estendere ad altri framework come gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030 – assomiglia più a una gabbia d’acciaio nella quale rinchiudersi piuttosto che a uno strumento promozionale capace di riconoscere e abilitare quelle energie di cambiamento che sono indispensabili per affrontare sfide epocali dalle quali dipende la sopravvivenza della nostra specie e dell’intero pianeta. Insomma più che una chiamata all’azione volta a scrivere in maiuscolo la “esse corta” di socialità sembra un compito, pure un po’ noioso, da svolgere sotto dettatura.

A essere particolarmente danneggiati da questa impostazione sono quei soggetti che nell’impatto sociale riconoscono la loro missione: imprese sociali, enti di Terzo settore ma anche, e sempre più spesso, imprese di capitali. E con essi anche quegli attori che apportano risorse, in particolare d’investimento, come filantropia venture e finanza impact. Se a prevalere infatti è la compliance e la sua lunga, costosa e – va detto – non sempre qualitativamente adeguata coda burocratica fatta di adempimenti, certificazioni, valutazioni c’è davvero poco margine per operare trasformazioni che possano dirsi tali ovvero capaci di invertire tendenze ormai sclerotizzate e riscrivere narrazioni ormai esauste. Perché è proprio quando un sistema dominante entra in crisi, come sta avvenendo per il capitalismo, che paradossalmente diventa complicato riformarlo senza rischiare di essere travolti dal suo crollo. Le sue ricadute negative diventano sempre più recrudescenti (disastri ambientali, disuguaglianze sociali) e, al contempo, la sua ideologia viene puntellata con correttivi incrementali (responsabilità sociale, filantropia riparativa) che non possono essere all’altezza degli obiettivi attesi. Anche i soggetti “terzi” rischiano di essere trascinati in questa logica perché l’adesione agli standard sono sempre più le forche caudine da attraversare per accedere alle risorse necessarie non solo per lo svolgimento delle loro attività, ma anche per sostenere investimenti su innovazioni di sistema generando così un impoverimento ancor più evidente della loro propensione al cambiamento.

Questa situazione è figlia di una debolezza intrinseca nell’affrontare temi di politica globale con la modalità degli obblighi di reportistica che è particolarmente visibile in campo ambientale, ovvero la E degli Esg che spesso viene additata come la “buona pratica” a cui ispirarsi. In campo “green”, infatti, si sono create nel corso degli anni sovrastrutture burocratiche che si distaccano sempre più dal pensiero originario che ha forgiato le istanze di sostenibilità attraverso l’attivismo e la capacità di risposta in termini di produzione e governance di modelli alternativi. La maniera con cui si articolano le policy è quantomeno opinabile in particolare per quanto riguarda la scelta dei parametri di misurazione, dove le esigenze di natura politico economica non si fanno troppi problemi a piegare a loro favore evidenze di natura scientifica. La questione della compensazioni nella produzione di anidride carbonica è emblematica in tal senso perché ha generato una pluralità di startup “soluzioniste” ma non trasformative per risolvere i problemi soprattutto delle grandi imprese attraverso business model che di fatto non scalfiscono il modello di sviluppo capitalistico energivoro e distruttivo dell’ambiente, anzi lo potenziano creando mercati di funzionali allo status quo. Il timore è che tutto questo accada anche alla lettera S, ovvero con attori che hanno creato negli ultimi decenni un pezzo di economia sociale che nel suo insieme funziona e che potrebbero essere sedotti dall’essere diventati oggetto di attenzione da parte di politiche finalmente non settoriali ma di transizione verso un nuovo assetto che assomiglia molto alla loro missione.

Come uscire da questo cul de sac?

  • La prima soluzione, periodicamente rinfocolata da una parte del settore sociale e dei suoi riferimenti scientifico culturali, consiste nell’opzione “off grid”, cioè dallo staccarsi dalle risorse finanziarie in particolare se riconducibili a un qualche ambiente mainstream. Una scelta che enfatizza la capacità di autofinanziamento a corto raggio certamente rilevante ma che da sola rischia di condannare questi soggetti alla residualità. Inoltre, a ben pensare, è anche poco praticabile considerando il livello di porosità tra i vari settori, ambiti, politiche. E’ davvero difficile, in sintesi, “staccare la spina”.
  • Una seconda soluzione, ben diversa, consiste nel rimettere mano prima di tutto alla narrativa dell’impatto sociale che forse in questi ultimi anni è un po’ “sfuggita di mano” a chi lavora sul campo ed è diventata appannaggio soprattutto di chi, a vario titolo, finanzia, supporta, promuove. L’edizione appena conclusa dell’Open camp sull’impresa sociale è stata istruttiva in tal senso: le esperienze più emblematiche sono quelle che hanno preso il toro per le corna non accontentandosi di adagiare le loro progettualità sui framework di missione predefiniti. Hanno riletto in profondità le origini politiche e culturali dei bisogni ai quali rispondere; hanno costruito e rielaborato conoscenze attivabili grazie a dati non standard; hanno misurato la loro efficacia rispetto alla capacitazione dei soggetti coinvolti e non sulla mera esecuzioni di azioni; hanno avuto il coraggio di sperimentare nuovi assetti per sconfiggere la ritualità dei modelli di governance, anche di quelli cooperativi e associativi. In questo modo contribuiscono a svelare le reali intenzioni degli investitori e dei policy makers costringendoli a giocare sul campo dell’impatto delimitato dalle comunità di riferimento, non limitandosi a far mettere la ciliegina sulla torta o a stendere glassa di socialità senza modificare l’impasto. Così l’impact investing può diventare più attrattivo, e soprattutto degno del nome che porta in una fase storica in cui gli approcci tecnocratici potrebbero fare da tappo a una domanda di cambiamento che allora potrebbe trovare modalità anti sistemiche di espressione trascinando con sé anche quel che di buono è stato faticosamente fatto negli ultimi decenni.

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