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Allontanamento Zero: «Diritti dei bambini e diritti dei genitori non vanno contrapposti»

La stessa parola, prevenzione dell'allontanamento, compare sia nel titolo nel contestatissimo disegno di legge della Regione Piemonte sia nel programma che è il fiore all’occhiello delle nostre politiche nazionali per l’infanzia, il programma PIPPI. Perché? Ce lo spiega la professoressa Paola Milani, referente di PIPPI: «Il problema non è che allontaniamo troppo, ma quale allontanamento abbiamo in mente»

di Sara De Carli

Prevenzione degli allontanamenti. È curioso che la stessa parola, prevenzione, compaia sia nel titolo nel contestatissimo disegno di legge della Regione Piemonte sia nel programma che è il fiore all’occhiello delle nostre politiche nazionali per l’infanzia, il programma P.I.P.P.I. Da un lato quindi il testo piemontese, il cui titolo recita “Allontanamento zero. Interventi a sostegno della genitorialità e norme per la prevenzione degli allontanamenti dal nucleo famigliare d’origine” e dall’altro il Programma di Intervento per la Prevenzione dell'Istituzionalizzazione, appena diventato un Leps ed inserito anche nel piano italiano per l’attuazione della Child Guarantee. Una dimostrazione lampante che a far problema, nelle critiche al disegno di legge regionale, non è la volontà di prevenire gli allontanamenti – come vorrebbero far credere quelli che tirano in ballo gli interessi economici di comunità e addirittura famiglie affidatarie – ma al contrario la presunzione che gli allontanamenti zero siano un obiettivo da perseguire. «Il problema in Italia non è che allontaniamo troppo. Il problema è quale cultura dell'allontanamento abbiamo e come facciamo gli allontanamenti, quale qualità garantiamo ai collocamenti fuori famiglia. Gli operatori hanno una formazione che li renda capaci di lavorare nel rispetto dei diritti bambini e nel rispetto della funzione genitoriale? Questo è un nodo importante. L'allontanamento non è un taglio dei legami ma un supporto ai legami. Cambia tutto», dice Paola Milani, ordinaria di Pedagogia Sociale e Pedagogia delle Famiglie a Padova e referente del programma PIPPI.

In che modo PIPPI lavora per la prevenzione dell’allontanamento dei bambini dai loro genitori?

La cultura che, nel nostro Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare dell’Università di Padova insieme al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dal 2011 abbiamo cercato di portare avanti è che in un tempo complesso come il nostro – ancora più complesso in questi ultimi due anni – i bisogni dei bambini e delle loro famiglie sono tanti e differenziati. Per questo, dobbiamo costruire un sistema di welfare per le famiglie che tenga in equilibrio tre tipi di interventi: interventi di promozione (ossia l’accompagnamento dei genitori anche in situazioni di ben trattamento), interventi di prevenzione e interventi di protezione, quell’area che a livello internazionale è denominata come alternative care. P.I.P.P.I. investe particolarmente sul segmento della prevenzione, che senza dubbio è un’area che in Italia va rafforzata. Tutta la legislazione italiana dalla 149 alla 328 dice che bisogna prevenire gli allontanamenti, attraverso “idonee azioni” con la famiglia di origine. Noi abbiamo voluto dare un “nome e cognome” a queste «idonee azioni» da fare con le famiglie, previste dalla legge, così da definire un modello di intervento e renderlo praticabile. In questo momento c’è bisogno di interventi qualificati in tutte e tre le aree. Pensare di eliminare la protezione perché siamo così bravi nella promozione e nella prevenzione che non c’è più bisogno di allontanare… è un sogno. Nella realtà in questo momento non è qualcosa di praticabile, perché ci sono molte famiglie che hanno bisogno di un intervento di protezione. Noi in P.I.P.P.I. non abbiamo mai visto la prevenzione come alternativa alla protezione, ma come complementare. Anche l'ultimo report che è uscito sui bambini in alternative care in Europa dimostra che l'Italia non è un paese che allontana molto (qui il documento).

Quindi il problema non è allontanare o non allontanare.

Infatti. Il problema in Italia non è che allontaniamo troppo. Il problema è quale cultura dell'allontanamento abbiamo e come facciamo gli allontanamenti, quale qualità garantiamo ai collocamenti fuori famiglia. Come è stato sottolineato tantissime volte, anche in questi giorni, l'allontanamento risponde al diritto del bambino di essere protetto, che è uno dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione dei diritti dei bambini dell'Onu: a proteggere un bambino tendenzialmente ci pensa la sua famiglia, ma se quella famiglia non è in grado di garantirlo, in alcuni casi l’allontanamento è necessario. La cultura dell'allontanamento che si sta affermando a livello internazionale e che con P.I.P.P.I. vogliamo portare avanti è che l’allontanamento non è un taglio dei legami, non è togliere, bensì aggiungere: aggiungiamo una risorsa a una famiglia che in un dato momento non è in grado di mettere in campo adeguate risorse educative. Aggiungi una risorsa alla famiglia. Non è un taglio dei legami ma un supporto ai legami. Cambia tutto. Il tema quindi è la qualità dell’allontanamento e l’appropriatezza dell’affidamento: quando bisogna agire tempestivamente l’allontanamento comunque questo va fatto nella prospettiva di ricucire i legami, di lavorare per provare a ricomporre.

Però noi abbiamo pochissimi affidamenti consensuali, se non erro il 12%.

Sì, però andiamo a vedere perché allontaniamo in maniera giudiziale e non consensuale. Il Ministero, dal 2011, investe in questo programma nazionale per la prevenzione delle pratiche istituzionalizzanti che non è solo l’allontanamento ma è anche la mancanza di partecipazione della famiglia. Capire per esempio se manca la formazione degli operatori che li renda capaci di lavorare nel rispetto dei diritti bambini e nel rispetto della funzione genitoriale. Questo è un nodo importante: in alcuni paesi e in letteratura si sta parlando sempre di più dei diritti dei genitori, di superamento della contrapposizione tra diritti dei genitori e diritti dei bambini, che, nella maggior parte dei casi, si possono coniugare, ma c’è un tema di formazione degli operatori e del sistema e di valutazione delle risposte che il sistema dà. Una valutazione fatta non per andare contro il sistema ma per rafforzarlo.

Dobbiamo quindi ammettere che qualcosa non va nel sistema?

Se fosse perfetto non avremmo casi come quelli che talvolta arrivano alle cronache. La competenza della giustizia non è sufficiente per fare tutti i controlli necessari, per problemi di organici… Ma il problema è anche nostro come accademia, non abbiamo prodotto sufficienti studi valutativi sul sistema delle comunità, dei servizi, degli affidi. Sappiamo a malapena quanti sono i ragazzi fuori famiglia, ma sappiamo pochissimo sulle traiettorie dei bambini che entrano nel sistema, sappiamo pochissimo su come ne escono effettivamente. Non abbiamo una cultura della valutazione dei servizi, non abbiamo ricerche approfondite che ci dicano qual è la qualità del sistema e degli affidi. Il famoso SIMBA è ancora fermo, questa è una delle radici del problema. Abbiamo qualche dato che ci fa dire che esistono delle “mele marce” ma che il sistema ha complessivamente grandi risorse, ma nessuno di noi sa veramente come vanno le cose. Una valutazione, lo ribadisco, per migliorare il sistema: perché che ne abbiamo bisogno è certo.

Per esempio in Piemonte si è puntato molto il dito contro i decreti di allontanamento che citano motivi economici, per quanto la legge escluda che si possa allontanare solo per ragioni economiche. Esistono o possiamo escluderli?

Non lo sappiamo, torniamo sempre lì. L’impressione – lavorando sistematicamente con i servizi da dodici anni – è che possa succedere che qualche caso scappi, ma che nell'orientamento generale sia veramente superato l'allontanamento per ragioni economiche. Tanto più che ora nel reddito di cittadinanza gli operatori sanno che quando c’è un minore, con le famiglie si va a costruire un Patto per l'inclusione sociale. Ci sono diversi strumenti a disposizione del sistema per evitarlo. Di fatto però non abbiamo dati e senza dati, le posizioni ideologiche prendono piede più facilmente, da una parte e dall'altra. Poi è anche vero che ricerche internazionali dimostrano che i bambini allontanati provengono da aree geografiche marginali ed emarginate, da quartieri poveri e periferici delle città… Non abbiamo nessun dato di questo tipo rilevato in Italia. Sappiamo però che, mediamente, il 40% delle famiglie incluse in P.I.P.P.I. sono beneficiarie del Reddito di cittadinanza: questo è un dato che dice che la povertà è interdipendente alla vulnerabilità e che intercettare precocemente le famiglie che affrontano situazioni di vulnerabilità mettendo in campo interventi integrati multidimensionali, che comprendano anche interventi di contrasto alla povertà, è una strada da percorrere senza esitazioni. Detto sinteticamente: se non andiamo a cercare queste famiglie, intervenendo presto – cioè quando i bambini sono piccoli, nei primi mille giorni di vita – e bene, è prevedibile che con queste famiglie prima o poi si debba procedere con uno o più allontanamenti.

Prima ha detto che occorre lavorare sulla coniugazione dei due diritti, quello dei minori e quello dei genitori, senza contrapporli. Come si fa?

Entrando molto in contatto con la famiglia, succede che ci si accorga che ci sono bisogni più ampi, che possono richiedere l'allontanamento. Abbiamo dei casi di allontanamento in P.I.P.P.I. e quel che proviamo a fare è costruire un progetto di allontanamento in equipe multidimensionale: non c’è mai un assistente sociale da solo o un educatore da solo, si lavora con lo psicologo, l’assistente sociale, l'educatore, il pediatra di famiglia, l'insegnante del bambino – teniamo tantissimo all’insegnante perché è la persona che vede il bambino tutti i giorni – i genitori e il bambino. I genitori stanno dentro l'equipe. Abbiamo messo a punto strumenti per la lettura della situazione adattati alla comprensione dei genitori, che co-costruiscono il progetto di intervento. La piena partecipazione della famiglia, si ha quando l’analisi della situazione del bambino viene realizzata con i suoi genitori: dalla lettura condivisa ci si accorge che i bambini non hanno risposte adeguate ai loro bisogni di sviluppo e quindi insieme ai genitori si decide che il bambino vada in affido o in comunità. Ma si continua a lavorare con i genitori: i genitori continuano ad andare ai gruppi, dove lavorano sulla competenza genitoriale, si costruisce una collaborazione tra famiglia d'origine e famiglia affidataria, per esempio dicendo “noi gestiamo la quotidianità ma le scarpe comprategliele voi, a scuola a parlare con i docenti andate voi..”. Non si interrompono i legami con i genitori. Finché non si riesce a fare una riunificazione.

C’è differenza tra riunificazione e rientro in famiglia?

Così come c’è da fare una risignificazione della nozione di allontanamento, così c’è da farlo anche sulla riunificazione. Il rientro è quando il minore torna a casa, con la sua valigia. Ma la riunificazione è il processo di lavoro che serve per arrivare al rientro, che si raggiunge gradatamente, per livelli. Un ragazzino che va in adozione e che una volta l'anno riceve un biglietto d'auguri dalla sua mamma è un "livello 1" di riunificazione: con l’adozione viene affiliato a una nuova famiglia ma ci va con una conoscenza della sua storia, senza interruzioni nella narrazione della sua storia, con un senso di appartenenza chiaro sia alla famiglia di origine che alla nuova famiglia. Un discorso da fare con calma, ma le ricerche rilevano che questa possibilità di riscrittura unitaria della propria storia contribuisce ad evitare che poi quando sono adolescenti e giovani si riempia quel bisogno con i viaggi per la ricerca delle origini, con il conflitto con la famiglia adottiva. La riunificazione ci dà le modalità per permettere ai bambini e ai ragazzi di vivere in nuove famiglie ma con conoscenza e consapevolezza della propria storia: questo è il fattore protettivo, che crea resilienza nei bambini che si trovano a vivere dentro nuove braccia e che rende possibile vivere “bene” dentro nuove braccia.

Foto Unsplash


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