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Antonio Iovane: ecco come nasce un podcast narrativo

Non esiste una grammatica del podcast narrativo come esiste invece per il giornalismo, il cinema o il romanzo. Sappiamo tutto del contenitore, ma pochissimo del contenuto. Antonio Iovane è uno invece che intorno ai podcast ha costruito una carriera di successo: tra i suoi lavori figurano Colpo di Stato – La storia del Golpe Borghese (2020); Moby Prince – Cronaca di un disastro (2021); Voci da un naufragio – Il disastro della Costa Concordia. Intervista

di Redazione

Era il 12 febbraio 2004 quando Ben Hammersley di “The Guardian” si mise alla ricerca di un nome per il fenomeno, in ascesa, dell’ascolto delle trasmissioni radiofoniche attraverso supporti quali lettore mp3 e iPod. Fu in quel momento che nacque la parola Podcast. Una narrazione sempre più diffusa nel panorama dell’intrattenimento digitale in Italia e nel mondo – con numeri che dimostrano un evidente interesse crescente da parte del pubblico – che però, troppo spesso, viene confusa con la semplice e lineare lettura di un testo.

Non esiste una grammatica del podcast narrativo come esiste invece per il giornalismo, il cinema o il romanzo. Sappiamo tutto del contenitore, ma pochissimo del contenuto.

Antonio Iovane è uno invece che intorno ai podcast ha costruito una carriera di successo: tra i suoi lavori figurano Colpo di Stato – La storia del Golpe Borghese (2020); Moby Prince – Cronaca di un disastro (2021); Voci da un naufragio – Il disastro della Costa Concordia.

Nel suo recente libro, “Podcast narrativo” (Gribaudo edizioni) spiega cosa è un podcast narrativo e suggerisce una serie di indicazioni pratiche per provare a realizzare un prodotto di questo tipo nel migliore dei modi: partendo dalla fase preparatoria (fin dalla scelta dell’argomento e degli interlocutori), passando alla costruzione dell’intervista, per finire con il making of, i rumori, l’atmosfera.
Tutto è corredato da esempi concreti tratti da alcuni dei podcast più rappresentativi, tra cui Veleno di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli (sulla vicenda giudiziaria della banda dei cosiddetti “Diavoli della bassa modenese”); Polvere di Chiara Lalli e Cecilia Sala (sull’omicidio di Marta Russo alla Sapienza) e 121269 di Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini (sulla strage di piazza Fontana).

Iovane, lei scrive che «Il podcast narrativo è di fatto un nuovo linguaggio, un ibrido di diverse forme espressive – teatro, musica, serie TV, letteratura, radio – in cui ognuna concorre al risultato». Ci potrebbe spiegare?
Non esiste, finora, una grammatica del podcast, e questo ne costituisce, allo stesso tempo, la debolezza e la forza. Non essendoci regole, se non quelle suggerite dai podcast precedenti – l’americano Serial innanzitutto –, questo nuovo linguaggio viene codificato giorno per giorno, semplicemente realizzando podcast. Si cercano strade, si valuta cosa funziona e cosa non funziona: in questo modo tutti quelli che, mentre mi state leggendo, stanno realizzando un podcast stanno contribuendo a crearne il linguaggio. Analizzando e costruendo podcast, mi sono accorto che è lì che il podcast si nutre di forme espressive diverse, che funziona. Il teatro di narrazione, il romanzo inchiesta, la serialità televisiva posseggono caratteristiche che si adattano in modo eccellente al racconto audio, seriale anche questo.

Di cosa abbiamo bisogno per realizzare un podcast?
Oltre al pc, al registratore e a un buon programma di editing direi che non debba mancare una buona idea; un block-notes e una penna; tanta buona volontà. Talvolta vengono spacciati per podcast narrativi prodotti che nulla hanno a che fare con questo genere di narrazione. Sono per lo più storie ricostruite consultando Wikipedia, magari narrate da voci cavernose. Senza ricerche, senza interviste, senza spostarsi dalla propria scrivania.

Perchè un podcast realizzato raggiungendo i luoghi di cui si racconta suonerà completamente diverso?
Perché il podcaster non si limita a raccontare una storia ma conduce con sé l’ascoltatore nel momento in cui la realizza. E il compito del podcaster narrativo non è solo quello di vivere quello che racconta, ma di farlo vivere all’ascoltatore, e lo fai vivere nel momento in cui porti l’ascoltatore nei luoghi del racconto. A quel punto non è solo l’intervista che conta ma tutta la sua cornice: rumori, suoni, strepiti e, soprattutto, il making of, quello che viene solitamente scartato in un’intervista su carta stampata e che invece deve essere valorizzato dal podcaster.

Il compito del podcaster narrativo non è solo quello di vivere quello che racconta, ma di farlo vivere all’ascoltatore, e lo fai vivere nel momento in cui porti l’ascoltatore nei luoghi del racconto.

Una delle grandi novità del podcast narrativo è la presenza dell’autore: attraverso il racconto e la voce, l’autore ha il compito di trasmettere a chi ascolta la propria personalità. Cosa rende così importante questa presenza?
La fiducia. Il podcast funziona quando il podcaster si rende trasparente e fa vivere a chi ascolta i suoi dubbi, le sue esitazioni e incertezze, persino i suoi errori di valutazione. In una parola si mostra sincero, per quanto si possa comunque risultare sinceri in un prodotto che vuole raggiungere un’ampia platea. È quello che fa splendidamente Sarah Koenig in Serial. In questo modo l’ascoltatore si rende conto che non stai indossando una maschera. E quindi, non solo vive le tue stesse emozioni, ma si fida.

Nel suo libro lei scrive che «uno scrittore è prima di tutto un lettore. Un autore di podcast è prima di tutto un ascoltatore». E «sono proprio i podcast che non girano a indicare una strada che poi è quella sbagliata, quella da evitare». Quali sono tre errori macro da evitare?
Non studiare. Non impegnarsi per realizzare il proprio podcast. Imitare gli altri senza lasciarsene semplicemente ispirare.

Tra i consigli lei include «mettere in conto il fallimento», perché «se siamo sicuri della riuscita vuol dire che non abbiamo intenzione di esplorare, di lasciarci sorprendere, ma abbiamo scelto un territorio sicuro, dove nulla è più da scoprire, dove conosciamo già la storia che vogliamo raccontare». Possiamo approfondire?
Beh, ammetto che si tratti di un obiettivo un po’ ambizioso, ma l’inclinazione dovrebbe essere quella. Quando si batte una pista, si deve sperare che quella pista porti a qualcosa ma, nello stesso tempo, si deve mettere in conto la possibilità di rimanere delusi: non si può sapere cosa si troverà prima di cominciare la ricerca. Quest’ultimo è l’atteggiamento disonesto del giornalismo a tesi: sappiamo già come stanno le cose, dobbiamo solo trovare il modo di adattare a esso la realtà. Ma un’inchiesta si realizza avventurandosi e mettendo, appunto, in conto il fallimento.

Scrive Chandra Candiani ne Il silenzio è cosa viva (Einaudi) che il silenzio è “Arte del congedo per ritrovare. Arte dell’a-capo che insegna a lasciarsi scrivere. Il silenzio semina. Le parole raccolgono. Il silenzio è cosa viva”. Lei cosa ne pensa?
La penso, fatte le dovute proporzioni, come Beethoven: pochi elementi drammaturgici sanno restituire tensione come il silenzio. Pensate a quello che accade nella sua ultima sonata, l’opera 111. Nel podcast sul Moby Prince, ho deciso di lasciare alcuni lunghi silenzi nella registrazione delle comunicazioni tra la Capitaneria di porto e le altre navi, silenzi che restituivano la solitudine di chi tentava di portare in salvo le persone e non riceveva risposta. Una scelta che non avrei potuto adottare in un approfondimento radiofonico. È quasi grottesco rendersi conto che per quaranta, cinquanta secondi stai ascoltando un silenzio, eppure funziona, come dicevamo a monte: stai ascoltando un silenzio e sei teso mentre lo ascolti. Ma il silenzio può essere chiaramente declinato anche in mille altri modi diversi: a ciascun podcaster il compito di capire quando è il momento di tacere.

La foto in apertura è di Matt Botsford per Unsplash


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