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Sanità & Ricerca

Il senso del prendersi cura

Il recente episodio di Assago segna in maniera irrefutabile la necessità di riportare al centro del dibattito pubblico e delle politiche sanitarie la questione del prendersi cura nella sua complessità. La sfida è quella di rigenerare la solidarietà partendo dal riconoscimento della fragilità di tutti e di ciascuno e sulla possibilità di una sua valorizzazione dentro la costruzione di relazioni sociali dense simbolicamente

di Angelo Palmieri

Alcuni giorni fa nel centro commerciale Milano Fiori di Assago si è verificato un episodio drammatico: un uomo gravato da seri problemi psichici, armato di un coltello, ha iniziato a colpire persone a caso, uccidendo un dipendente trentenne della catena di grande distribuzione e ferendone gravemente altre quattro. Una strage per fortuna scansata causata da una crisi psichica esplosa all'improvviso. Si è vista gente terrorizzata scappare in lacrime o restare inebetita e sotto shock, mentre era riverso per terra il dipendente del supermercato colpito a morte. Di qui l’urgenza di attivare un servizio di supporto psicologico per tutte le persone coinvolte e di soccorrere i feriti che versavano in condizioni molto gravi. L'uomo, portato negli uffici del comando provinciale di Milano in via della Moscova, non smetteva di proferire frasi prive di senso in linea con il suo evidente stato confusionale: si trattava di un incensurato, in cura da un anno per una grave depressione. L’episodio gravoso segna in maniera irrefutabile la necessità di riportare al centro del dibattito pubblico e delle politiche sanitarie la questione del prendersi cura nella sua complessità. Paradigmatiche le dichiarazioni del giovane aggressore che stentava a ritrovare la lucidità mentale: “Pensavo di star male, di essere ammalato. Ho visto tutte quelle persone felici, che stavano bene, e ho provato invidia". Parole che richiamano l’assoluta necessità di una risposta comunitaria ad un disagio psichico profondo.

“L’uomo non può sopportare una vita priva di senso” affermava solennemente Carl G. Jung, come a voler dire che non possiamo esimerci dall’impegno di perseguire una vita ricca di senso. Ed invece oggi si avverte sempre più un lento, inesorabile sprofondare verso un nichilismo disarmante o verso l’assenza di significato.

Da varie parti si ripete spesso che l’attuale società spinge le persone sempre più pericolosamente verso modelli di comportamento individuale che svuotano l’esistenza di quei valori che dovrebbero invece esserne il fondamento. Un diffuso malessere psicologico serpeggia in forme pervasive e in maniera stratificata.
Non pochi dati statistici evidenziano un aumento del consumo di antidepressivi e antipsicotici.
Non meno preoccupante il ricorso a forme di medicazione autogestita, favorendo così comportamenti di consumo e dipendenza altamente nocivi, soprattutto con riferimento al target giovanile.

Assistiamo, dunque, ad un incremento sensibile del numero di accessi in pronto soccorso con diagnosi principale di natura psichiatrica e si allungano le liste d’attesa dei centri di salute mentale: senso di smarrimento, ansia, attacchi di panico, tutti allarmismi tesi a significare un malessere che richiede, con speranza realistica e misurata, non la stanca riproposizione di comportamenti e soluzioni soliti ad essere messi in campo, ma il coraggio di affrontare la complessità sociale dell’attuale tempo inedito e rovesciato. Un’immagine concreta ci appare a riguardo quella dell’aratro che rivolta la terra, ossia penetra nella superficie del campo, incide la compattezza del terreno e determina una rigenerazione della pianta: questo equivale a dire prendersi cura dell’albero perché possa germogliare e rifiorire nuovamente.
Urge dissodare il terreno ovvero levare l’ancora, salpando da un approccio diverso capace di leggere il tema del disagio da una prospettiva sociale, centrata sulla comunità.

Più volte i vari opinionisti ed esperti della materia sanitaria hanno ben illustrato le diverse insufficienze strutturali a cominciare dalla riduzione dei servizi e del personale, a fronte di più accessi in pronto soccorso e nelle prestazioni erogate dal territorio. A tal riguardo merita ricordare che la spesa per la salute mentale è ferma al 3,5% del Fondo Sanitario Nazionale rispetto ad una previsione di spesa del 5%.

Ma al di là dei dati e delle carenze strutturali e motivazionali dell'intero orientamento del sistema di tutela della salute mentale che, come ben divulgato da ampia letteratura, presenta elementi ormai obsoleti e non più coerenti rispetto alle reali necessità delle società moderne, occorre evitare il rischio di letture e risposte al disagio psicologico basate unicamente sulla “reductio ad unum” di matrice psicologica, medica e di organizzazione dei servizi. Va dunque contrastata la tendenza alla medicalizzazione della vita e la riduzione della medicina dentro una visione tecnocratica della salute.

In altri termini si avverte l’urgenza pedagogica di abitare spazi di relazione non “differita” e virtuale. Non possiamo più rinunciare a forme di socialità consistenti, di scambio profondo e affettivo, di con-divisione e pertanto di cura.

Il pensiero corre ai nostri giovani e giovanissimi e al beneficio di esperienze relazionali dal vivo in cui poter socializzare solitudini, fatiche e paure generati dalla crisi attuale e di poter altresì sperimentare risposte inedite e ignorate da un mondo adulto e infiacchito che tira a campare. Allora la sfida è quella di rigenerare la solidarietà partendo dal riconoscimento della fragilità di tutti e di ciascuno e sulla possibilità di una sua valorizzazione dentro la costruzione di relazioni sociali dense simbolicamente.
Siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri. Questo inestricabile legame nasconde un forte potenziale generativo; bisogna liberarlo, dargli forma.

Il prendersi cura, come sostiene Magatti, è un modo diverso di pensare il nostro rapporto con la realtà. Esprime un compromettersi con l’altro, la capacità di uno slancio prometeico verso ciò che è ignoto ma non mi è estraneo.
Non va mai dimenticato che essere al mondo nell’ottica della cura significa co-esistere, con-vivere, costruire il proprio essere in relazione con altri.

A tal proposito Warren Reich, nel richiamare l’imprescindibile aspetto della finitezza e della vulnerabilità dell’uomo, chiarisce con ferme parole come si avverte il bisogno di una prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità, in un approccio che attribuisca un grande valore morale ai legami che nascono dall’affetto e dal soffrire insieme all’altro. La cura diventa così la struttura dell'esistenza, è intimamente connaturata ad essa, è la stessa esistenza, è essa a muovere i nostri passi.

L'esperienza della pandemia conferma in termini estremamente chiari come la salute mentale sia da intendersi non tanto in senso individuale quanto come una condizione che interessa l'intera comunità.

Ecco, dunque, la sfida nella sfida: moltiplicare le ragioni dello stare insieme, dell’abitare luoghi comuni, per opporsi al propagarsi delle derive distruttive dell’autoreferenzialità. Una comunità larga capace di trasformare il disagio dell’altro in un orizzonte di benessere per tutti!

Dobbiamo sforzarci tutti di arricchire la nostra esistenza di autenticità, di non disorientarci e di saper accogliere i diversi eventi della nostra vita con quella salda consapevolezza interiore improntata a quella che una volta si diceva “saggezza senza tempo”.

Senza mai dimenticare che cura, come sottolinea Heidegger, è la condizione che permette la possibilità di tutte le modalità dell’”Esserci” di essere nel mondo, è ciò che ha dato forma all’uomo. Il termine "prendersi cura" indica soprattutto il fatto che la costituzione profonda dell'esistente umano – l'essere dell'Esserci – è quella della “cura”, del prendersi cura. Il che equivale a dire che l'essere in relazione col mondo è ciò che unicamente caratterizza l’esistenza degli esseri umani.

In apertura photo by Stefano Pollio on Unsplash


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