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Come curare la psiche dei migranti forzati

Il modello di assistenza del progetto Ca.Re. promosso nei territori di Mantova, Cremona e Monza. "Siamo riusciti a creare una collaborazione reale tra il pubblico e il privato sociale, tra le aziende sanitarie del territorio e i servizi sociali dei Comuni, tra le cooperative sociali e le agenzie per il lavoro di Mestieri Lombardia", spiega Gianluca Ruberti, responsabile dell’unità organizzativa di Mantova di Mestieri Lombardia e direttore area formazione e lavoro di Solco Mantova

di Luca Cereda

Cicatrici nella psiche. Lasciate dalle motivazioni di abbandonare la propria casa, e poi dalla drammatica traversata del deserto prima e poi del mare, passando per i lager libici. Là dove le violenze — anche sessuali — sono praticamente inevitabili. Stesso calvario per chi tenta la “rotta balcanica”.
Torture, umiliazioni e logoramento fisico provocano nei migranti diverse forme di disagio mentale, che i servizi socio-sanitari italiani — nonostante le “Linee Guida sull’assistenza e la riabilitazione delle vittime di tortura” — per lo più non sono preparati a prendere in carico.

Pubblico e privato insieme
Per questo il progetto Ca.Re, finanziato dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione, per 3 anni ha sperimentato un modello di assistenza che può diventare la stella polare del settore. «Il progetto ha preso forma sui territori di Mantova, Cremona e Monza, dove abbiamo lavorato rispettivamente alla costruzione di un’équipe multidisciplinare etnoclinica, al reinserimento lavorativo e all’autonomia abitativa dei migranti con problemi di natura psichiatrica. Siamo riusciti a creare una collaborazione reale tra il pubblico e il privato sociale, tra le aziende sanitarie del territorio e i servizi sociali dei Comuni, tra le cooperative sociali e le agenzie per il lavoro di Mestieri Lombardia», spiega Gianluca Ruberti, responsabile dell’unità organizzativa di Mantova di Mestieri Lombardia e direttore area formazione e lavoro di Solco Mantova.

La presentazione al Cnel
Il progetto Ca.Re ha presentato questo modello sperimentale di presa in carico il 3 ottobre nell’Aula Parlamentino del Cnel durante il convegno Promuovere la salute mentale dei migranti forzati: esperienze, prospettive, strategie, mostrando i risultati del lavoro svolto con 20 migranti con patologie mentali. L’obiettivo non era disporre di un’ampia casistica, ma di costruire una risposta integrata alle esigenze e alle vulnerabilità psico-sociali dei migranti, in particolare, di quelli ospitati nel sistema dell’accoglienza diffuso. «Grazie alle diverse attività generate dal progetto», conclude Ruberti «siamo riusciti a sperimentare e consolidare la capacità dei quartieri e delle città dove queste persone vengono prese in carico, consegnando al territorio, ai Dipartimenti e Centri di salute mentale, ai servizi di diagnosi e cura e a tutti gli attori che concorrono all’intervento clinico, sociale e riabilitativo, la responsabilità di un’integrazione socio-sanitaria dei servizi e della presa in carico della vulnerabilità superando la logica dell’istituzionalizzazione».


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