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Famiglia & Minori

Ascolto, senza giudizio: l’arte si avvicina agli adolescenti

I ragazzi hanno delle storie da raccontare e tanta voglia di esprimersi, tra ansie vecchie e nuove e speranze per il futuro. Il fotografo Riccardo Venturi e la videomaker Arianna Massimi sono partiti per un lungo percorso tra le comunità educanti dell'impresa sociale Con i Bambini, durante il quale hanno raccolto le testimonianze di giovani di tutta Italia, confluite nella mostra “Stati d’Infanzia – viaggio in un Paese che cresce”, ospitata fino al 26 febbraio al Museo di Roma in Trastevere

di Veronica Rossi

Un viaggio tra i bambini e i ragazzi d’Italia, nei “cantieri educativi” promossi dall’impresa sociale Con i Bambini e sostenuti dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. È questa l’esperienza che il fotografo Riccardo Venturi e la videomaker Arianna Massimi raccontano nella mostra “Stati d’Infanzia – viaggio in un Paese che cresce”, curata da Ilaria Prili, presidente dell’associazione Akronos, e ospitata dal 28 ottobre al 26 febbraio al Museo di Roma in Trastevere. Un tema fondamentale, quello dell’esposizione, su cui si gioca il futuro della Penisola. “In Italia su oltre 9milioni di minori, un terzo vive in una condizione di esclusione precoce. Un dato drammatico e in aumento”, dice Marco Rossi-Doria, presidente di Con i Bambini. “È una questione cruciale, che riguarda i diritti dei bambini e la stessa possibilità di uno sviluppo sostenibile”. Abbiamo sentito Riccardo Venturi, che ci ha spiegato genesi, obiettivi e ricadute del suo lavoro.

Innanzitutto, da dove nasce questo percorso?

Io mi occupo da anni di tematiche sociali – sia in Italia che all’estero –, legate all’adolescenza e all’infanzia; ho già affrontato in passato questioni connesse alla povertà educativa e alle comunità educanti. Volevamo che questi argomenti ritornassero a essere centrali nel dibattito pubblico. In un periodo segnato prima dalla pandemia e poi dalla guerra – per la quale si parla di armi nucleari come se fossero noccioline –, con i cambiamenti climatici sullo sfondo, il futuro dei giovani non è mai stato così incerto e ansiogeno. Abbiamo deciso di raccontare questo, ma, allo stesso tempo, di dare conto della speranza e delle aspettative dei ragazzi: così abbiamo intrapreso un viaggio da Nord a Sud, nelle tantissime comunità educanti promosse da Con i Bambini, cercando di fare un bilanciamento tra le problematicità e la positività delle nuove generazioni.

Cosa sono queste comunità?

L’impresa sociale Con i Bambini sostiene centinaia e centinaia di progetti in tutta Italia, in cui c’è una comunità che educa, che non si limita solo alla scuola e alla famiglia: è tutta la società che si mobilita per accompagnare la crescita dei ragazzi, non solo di quelli che vivono una situazione di disagio, ma anche di quelli più fortunati, che non è detto che non abbiano dei problemi.

Ci fa degli esempi?

Un’esperienza che mi è sembrata particolarmente bella è “A scuola per mare”, un percorso con ragazzi che hanno estrazioni sociali e background differenti, spesso complessi, che partono per una navigazione di tre mesi. Si tratta per loro di un periodo estremamente formativo ed educativo: devono stare 100 giorni con educatori e altri giovani che non conoscono. Poi, di fatto, la barca la conducono loro, devono gestirla e quindi partecipare; hanno la necessità di imparare a confrontarsi e collaborare, senza che venga imposto. Noi li abbiamo raggiunti per due giorni mentre erano all’altezza dell’Asinara, che è un luogo significativo: là Falcone e Borsellino prepararono l’istruttoria per il Maxiprocesso. Al percorso, quindi, si è aggiunta anche una parte di educazione alla legalità.

Cosa si porta a casa da questo viaggio?

L’esperienza umana di ascoltare emozioni e racconti dei giovani, di entrare in relazione con loro e farmi interprete delle loro necessità con la mia arte. In Umbria abbiamo intervistato alcune classi e quello che emergeva, più di tutto, era un problema legato all’ansia di essere sempre performanti, a scuola e a casa, ma anche con gli amici e sui social network. Esistono due mondi, quello reale e quello virtuale, ed entrambi sono importanti, anche se chi è più avanti negli anni non sempre lo capisce. Il fenomeno del cyberbullismo appartiene a questa generazione e crea moltissimo disagio: noi adulti non dobbiamo derubricarlo come una sciocchezza, ma confrontarci con esso e comprenderlo. Parlando coi ragazzi cerco di imparare da loro, di captare dei segnali e trasmetterli nel mio lavoro.

E in che modo può avvenire questa trasmissione?

Scattando delle foto che creino un racconto. Anche questo è un viaggio, ogni scatto è un’alternanza di sensazioni, ci possono essere immagini drammatiche e positive accostate tra loro. Credo poco in quei lavori in cui si vede solo una faccia della medaglia: la realtà non è o bianca o nera. Io ho cercato di mostrare le sfumature: dove c’è una situazione difficile c’è anche molto altro – speranze, sogni, aspettative – che val la pena di raccontare.

Come hanno reagito i ragazzi?

Bene. Erano contenti di essere, per una volta, protagonisti, felici che qualcuno spendesse del tempo con loro e per loro, che li si ascoltasse.

Le è mai capitato che qualcuno invece non volesse parlare?

No. Magari ci sono stati dei ragazzi che mi hanno chiesto di non entrare in dettaglio su alcuni aspetti o di non riportare degli elementi della loro storia. Io ho il massimo rispetto per chi vuole che alcune informazioni rimangano riservate: ascolto quello che i giovani mi vogliono raccontare, senza forzarli.

Avrà sentito dei racconti che l’hanno colpita.

Molti. Me ne ricordo in particolare uno, di un ragazzo di 22 anni, che ne aveva passati cinque o sei a lottare con la tossicodipendenza. Sembrava convivessero due persone in una: da una parte il giovane con una grandissima cultura, che parlava quattro lingue e divorava libri, dall’altra l’eroinomane.

Nelle storie difficili, l’arte può avere un ruolo importante di sostegno.

L’arte, la creatività in generale, è il modo in cui più facilmente un ragazzo può esprimersi, è uno spazio in cui non si sente obbligato a ricevere un’approvazione. È una valvola di sfogo, ti educa a capire che la tua persona, la tua individualità, conta a prescindere dal risultato finale, perché ti rendi conto che è un tuo bisogno personale: non ti obbliga a essere performante, è qualcosa che ti fa stare bene nel momento in cui lo fai.

Che sensazioni può dare, secondo lei, a ragazzi e bambini, essere invece oggetto d’arte?

Credo dipenda da persona a persona. In base alla mia esperienza, posso dire che molti mi dicono che li aiuta a vedersi in un altro modo. A volte fa bene guardarsi da un punto di vista diverso.



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