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Beethoven, quando la vulnerabilità del corpo non frena la perfezione

«C’era un tempo in cui avere una vulnerabilità nel corpo o nella mente comportava l’impossibilità di raggiungere le vette dell’arte, del sapere, della bellezza. Uno come Beethoven, sarebbe stato un sordo senza speranza». Poi, però, le cose sono cambiate. Nel suo nuovo libro, Daniela Lucangeli dedica un omaggio al musicista che compose l’Inno alla gioia proprio quando iniziò a non sentire più nulla

di Daniela Lucangeli

«C’era un tempo in cui avere una vulnerabilità nel corpo o nella mente comportava l’impossibilità di collegarsi alla perfezione, di raggiungere le vette dell’arte, del sapere, della bellezza. Uno come Beethoven, lì, sarebbe stato un sordo senza speranza». In occasione della giornata mondiale delle persone con disabilità proponiamo un estratto dal nuovo libro di Daniela Lucangeli,Il tempo del Noi. Giganti del pensiero che ci hanno indicato la via” (Mondadori). Di ciascun gigante, Maria Montessori; Don Lorenzo Milani; Anna Freud; Friedrich Frobel; Marie Curie; Ludwig van Beethoven; Sophie Germain e Anna Frank Lucangeli fa emergere la rivoluzione, l’innovazione, il quid che quell’individuo ha cambiato per sempre nella struttura del sapere collettivo. Quello che segue è un omaggio a Beethoven che nel 1820, proprio quando inizia a non sentire più nulla, compone l’Inno alla gioia, «dono straordinario perché scavalca non solo il tempo, ma la depressione e il dolore».


Ludwig van Beethoven è senza dubbio uno dei piu grandi e straordinari compositori di tutti i tempi. In queste pagine, però, parliamo di lui non tanto per il suo contributo al classicismo viennese o alla musica romantica, ma per il suo punto di maggiore vulnerabilità: l’udito. […]

Nel 1796, quando ha venticinque o ventisei anni, prende coscienza del fatto che sta perdendo l’udito. La causa della sua sordità non è accertata: c’e chi parla di labirintite cronica, chi di otosclerosi, chi di una patologia ossea. E invece certo che Beethoven, quando si accorge di cominciare a perdere la capacità di ascoltare le voci e i suoni, agisce da genio, cioè non si arrende. E, in gran segreto, prova a contenere gli effetti della malattia, inventando modi nuovi per sentire. […]


Per esempio, scopre che per percepire le sue composizioni non come le ha scritte, ma come chi le fruisce, deve avvicinarsi agli strumenti. In pubblico, però, è impossibile farlo, ne andrebbe della sua reputazione. Gli tocca arrangiarsi in privato. Quindi, cosa fa? Sega le gambe del pianoforte, le accorcia, per suonare seduto a terra e connettersi con le vibrazioni della musica. Alcuni raccontano che, addirittura, si stendesse e appoggiasse l’orecchio sul pavimento, per esercitarsi a non perdere la capacità di perceptio. Altri scrivono che, per lo stesso motivo, avesse fatto costruire una scatola, una specie di cassa di risonanza, da mettere sopra il pianoforte. Altri ancora che suonasse tenendo fra i denti una bacchetta di metallo, posta a contatto con la cassa armonica del pianoforte. Tutte strategie per trovare nuove vie di ascolto, un ascolto vibrazionale, e diventare capace di toccare la musica, di sentirla senza suoni. […]


Prima di Beethoven nessuno pensava che una persona impossibilitata a sentire potesse suonare. Figuriamoci comporre! Si credeva, al contrario, che la vulnerabilità condannasse le persone all’isolamento perpetuo. In poche parole: perché stare con gli altri, se non li senti? Se non riesci a parlare? Se non puoi vedere? Trecento anni prima che i neuroscienziati cominciassero a parlare di connettoma e di vibrazioni codificate in sistemi informazionali, Beethoven ci ha mostrato che non esiste condizione in grado di privarci della possibilità di entrare in comunicazione con gli altri. E l’ha fatto in maniera sublime: attraverso la musica. […]

Vorrei provaste a immaginare il suo dramma umano, personale. Perche lui, perdendo l’udito, non viene solo privato del senso che lo aiuta a comunicare se stesso all’esterno, che gli permette di ascoltare ciò che più ama (ovvero la musica), ma anche di una fondamentale connessione con il Noi, con il mondo, con l’universo.
È questo a rendere la composizione dell’Inno alla gioia così grande. E a rendere lui un genio. È vero che Beethoven ha scritto partiture indimenticabili, è vero che la sua musica ha travalicato i secoli e ancora ci parla, ma ciò che è assolutamente unico, a mio avviso, è il talento di quest’uomo nel rimanere (inter)connesso con se stesso, con le sue emozioni più profonde, con i suoi desideri, ma anche con il resto del mondo. Per quanto isolato uditivamente, per quanto isolato fisicamente.

Pensateci: nessuno gli ha insegnato come fare. Lui studia il problema, lui capisce quali rimedi e quali strategie sono più giusti per sé e li adotta. Il risultato di tutto ciò è l’Inno alla gioia, dono straordinario perché scavalca non solo il tempo, ma la depressione e il dolore. Tanto grande era il suo amore per la musica, per la vita.

Ecco, a mio avviso, questo è il grande dono di Beethoven: la capacità di tradurre la mancanza in musica, connettendosi una volta ancora con la vita. Nonostante tutto, egli continua a rendersi interprete di quell’armonia universale che sentiva e percepiva anche senza l’uso delle orecchie. E lo fa nell’unico modo che conosce: con le note, proiettando nel futuro una felicità di cui probabilmente poteva avere soltanto nostalgia.

* Daniela Lucangeli è docente di Psicologia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Padova. Direttrice scientifica della rete Polo Apprendimento e presidente nazionale CNIS (Coordinamento Nazionale Insegnanti Specializzati), è membro dell’International Academy for Research in Learning Disabilities (IARLD) e presidente di Mind4Children, spin-off dell’Università degli studi di Padova


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