Welfare & Lavoro

Disabilità, Melio: «ragionare sulle parole non è una sciccheria»

Qual è il linguaggio appropriato per parlare della disabilità? Qual è la comunicazione giusta per creare un mondo inclusivo? «Ricordiamoci che stiamo parlando di “persone”, non di razze canine: l'unica strada possibile per normalizzare la disabilità è quella di rimettere al centro la “persona”», dice Iacopo Melio

di Sabina Pignataro

La riflessione da cui ci piacerebbe partire questo 3 dicembre, Giornata internazionale delle persone con disabilità, è la seguente: «una persona con disabilità non è una maledizione, una condizione sfortunata, ma che è la nostra società che rende le disabilità un problema: una società nella quale la stragrande maggioranza delle persone vive come ospite non particolarmente gradita, semplicemente perché non è conforme a un qualche standard». Le parole sono di Iacopo Melio, che lavora come freelance nel mondo del giornalismo e della comunicazione digitale e si occupa di sensibilizzazione e divulgazione come attivista per i diritti umani e civili.

Nel suo libro urgente ed importante, “È facile parlare di disabilità (Se sai davvero come farlo) Una guida per imparare a utilizzare le parole giuste” (edizioni Erickson) Melio sintetizza mezzo secolo di ricerche, di studi e di teorie riguardanti i Disability Studies, nella convinzione del fatto che «ragionare sulle parole non sia affatto una sciccheria».

Melio, nelle primissime pagine del suo libro lei ricorda che “nessuna persona nasce imparata”. Ecco, partendo proprio da questo assunto noi giornalisti della redazione di Vita le chiediamo un aiuto. Ci occupiamo quotidianamente e con una certa professionalità di disabilità, eppure talvolta, nella scrittura degli articoli non siamo certi di fare bene. Come è più giusto scrivere: “persona con disabilità”; oppure “persona disabile” oppure “disabile”e basta o ancora “persona” e basta. La cosa si fa ancora più difficile quando si parla di persone nello spettro autistico: “persone autistiche”; “autistici”; “persone con autismo”; “persone” e basta… Ci aiuta ?
Ricordiamoci sempre che stiamo parlando di “persone”, non di razze canine o di categorie prive di un'anima, perciò l'unica strada possibile per arrivare a normalizzare la disabilità è quella di rimettere al centro la “persona”: ecco perché il termine più corretto, in questi casi, è quello di “persona con disabilità” (se vogliamo utilizzare il “person first”, attraverso cui la disabilità appare come una caratteristica come qualunque altra) o “persona disabile” (se preferiamo usare l' “identity first”, attraverso cui la disabilità appare come parte fondamentale dell'identità della persona). Entrambi gli approcci citati sono validi e la scelta riguardo quale dei due utilizzare deve sempre spettare alla persona con disabilità, in base a come preferisce essere chiamata: l'importante, ricordiamo, è anteporre sempre il termine “persona” per non spersonalizzare gli individui. Lo stesso vale per le neurodivergenze, ad esempio è corretto dire “persona con autismo” o “persona autistica”, anche se in questo caso l'ideale sarebbe “persona nello spettro dell'autismo” per ricordare che non esiste un solo autismo e che la neurodiversità è vastissima, così come le sue caratteristiche.

Per chi lavora con le parole, come noi e come lei, questa attenzione deve essere quotidiana. Riprendendo la concezione spinoziana secondo cui «ogni determinazione è una negazione» (Omnis determinatio est negatio), nel senso che ogni caratteristica che assume l'essere avviene con una negazione rispetto alla totalità, le domando quanto sia giusto esplicitare o meno il fatto che si parli di una persona con una specifica disabilità?
Ma infatti, perché mai a qualcuno dovrebbe interessare la cartella clinica di una persona se non per fini medici? È fondamentale per chiedermi di uscire a mangiare una pizza sapere se io mi sposti in carrozzina, se utilizzi il bastone o se ci veda poco o niente? Se abbia una neurodivergenza o soffra di depressione? Lo è solo se vogliamo pianificare la cena nel migliore dei modi, senza brutte sorprese, scegliendo un locale accessibile e adatto alle esigenze di tutte le persone coinvolte, ma non per altro. Ecco perché, in quanto caratteristica come qualunque altra, dovrebbe essere totalmente superfluo ribadire la disabilità di qualcuno quando è fuori luogo rispetto al discorso affrontato o alla situazione vissuta: direste mai che “Marta, ragazza dai capelli biondi, si è laureata con 110 e lode”? A parte il fatto che di persone che si laureano con lode ne abbiamo fortunatamente molte ogni giorno, perciò raccontarlo con un articolo di giornale solo perché Marta ha i capelli biondi (o una disabilità) non fa altro che enfatizzare la sua diversità attraverso una sua “normalissima” caratteristica, discriminandola con tono pietistico e compassionevole come se avesse compiuto chissà quale impresa, eroificandola (si parla, nello specifico, di “inspiration porn”, ma poi il fatto che lei abbia i capelli biondi (o una disabilità) non cambia nulla e non aggiunge niente alla notizia in sé. Perciò dovremmo imparare a chiamare semplicemente le persone con il loro nome, e basta!

Dall’altra parte però occorre stare attenti. Come scrive lei, “tra i peggiori nemici delle persone con disabilità troviamo gli articoli scritti su di loro": titoli sensazionalistici, trafiletti pieni di compassione pietismo, approfondimenti medicalizzanti o foto cariche di inspiration porn. Anche noi desideriamo combattere quella tendenza (definita anche come “pornografia motivazionale”) presente nei film, alla Tv, sui giornali e nella vita di tutti i giorni, che considera le persone disabili come fonte di ispirazione e consolazione per tutti gli altri…
Credo che il giornalismo abbia una responsabilità enorme: pietismo e compassione sono ingredienti golosi per chi cerca click e visualizzazioni facili, facendo leva sulle emozioni e sulla sensibilità dei lettori (sensibilità che, in questo caso, non significa quasi mai capacità di saper analizzare e cogliere gli errori comunicativi e i conseguenti danni culturali e sociali causati, semplicemente perché non si hanno gli strumenti per poterlo fare, molto spesso anche quando si vive la disabilità in prima persona). Ecco perché se vogliamo migliorare gli atteggiamenti verso la disabilità, e quindi arrivare a garantire servizi e strumenti utili alle persone disabili, dobbiamo cambiare prima di tutto il modo in cui la disabilità viene raccontata, normalizzandola, affinché un domani non venga più percepita, se non per essere tutelata.

Le persone disabili vengono spesso definite persone «speciali» e «eroi». Eppure la disabilità non rende speciali le persone: sicuramente non le trasforma in angioletti innocenti da compatire, ma nemmeno li converte in “oggetti” con funzione di stimolo, esempio o consolazione a beneficio di chi non è disabile» Di questa agiografia non ne possiamo più. Ogni volta è una lotta contro i mulini a vento. Come se ne esce?
Bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che le persone con disabilità, in quanto persone, hanno pregi e difetti esattamente come tutte quelle così dette “normodotate”, o quantomeno come quelle che non hanno una disabilità evidente: possono essere cattive, antipatiche, stupide, perfino brutte esteticamente, e tutto ciò che di poco bello ci può venire in mente riguardo qualcuno. Anche questo tipo di normalizzazione serve a eliminare il pietismo e la compassione, ma finché riterremo “intoccabile” o “perfetta” una persona in carrozzina, continueremo ad essere ben lontani anche dal riconoscere una sua adulta e matura cittadinanza.

Nella prefazione che ha fatto al suo libro, Vera Gheno, sociolinguista, scrive così: “Sono in aeroporto e i controlli si centrano sulle persone in fila con me che hanno la pelle più scura della mia. Sono in treno, e la persona in carrozzina è costretta a una gimkana tra i bagagli. Sono al semaforo, e il segnalatore acustico per le persone cieche non funziona, è stato rotto tanto tempo fa. Sono all’anagrafe con mia madre, che ha un nome straniero, e l’impiegata le dà automaticamente del tu perché presume che non capisca bene la nostra lingua”. Le chiedo allora: quali sono i tre passi urgenti per modificare queste ingiustizie?
Quelle descritte da Vera Gheno sono barriere tanto architettoniche quanto sociali e culturali. Più che tre passi, dovremmo compiere tutti un unico grande salto: quello di capire che la disabilità, e più in generale la diversità e la divergenza, non riguardano solo una cerchia ristretta di persone con difficoltà “evidenti” ma ognuno di noi, proprio perché chiunque può vivere una situazione di difficoltà ritrovandosi in un contesto sfavorevole, che non gli permette di accedere alle stesse occasioni e opportunità che altri, invece, possono affrontare serenamente. Solo quando capiremo che siamo tutti uguali proprio perché “diversi”, allora inizieremo a costruire una società su misura di tutte e di tutti, senza più agire “per aiutare qualcuno” ma per un'inclusione universale normalizzata.

Tra i consigli che Iacopo Melio riporta ce ne sono cinque che pensiamo siano davvero molto importanti. Li riportiamo qui, sperando siano d’aiuto a molti

  • Non usare l’espressione «persona Invalida»

Letteralmente «non-valida»: va da sé che nessuno dovrebbe mai essere etichettato in questo modo in base alle sue caratteristiche fisiche, neurologiche o sensoriali. Se si deve proprio ricorrere questo termine per motivi di legge, perché purtroppo viene ancora usato in certe circostanze, è preferibile dire «persona con certificazione di invalidità», evitando di identificare la persona con un termine che la sminuirebbe togliendole validità.

  • «Non vedente» / «Non udente»

Lo stesso meccanismo si manifesta con i termini «non vedenti» e «non udenti»: l’avverbio «non» non rende la disabilità più carina o accettabile, anzi, anch’esso evidenzia la mancanza di qualcosa appartenente alla «norma», ed è per questo che quando si parla di disabilità sensoriali dovremmo parlare soltanto di «sordità» e «cecità»!

  • «Portatrice di handicap»

La disabilità non è un peso da «portare»: di per sé non schiaccia, non opprime né soffoca. A farlo, semmai, è una malattia oppure gli ostacoli che la società ci pone davanti. Oltretutto, qualcosa che «si porta» si presuppone che la si possa anche «lasciare» in qualunque momento, ma questo non vale per buona parte delle disabilità. Una persona con disabilità non «porta» niente se non uno zaino, gli occhiali, i libri, una bandiera… Se stessa, come fa ognuno! Perciò eliminiamo questo senso di pesantezza a prescindere quando ne parliamo.

  • «Affetta da…»

La disabilità non è una patologia: non è contagiosa, non si «prende» né si «guarisce» da essa. Per questo occorre sempre distinguere disabilità e malattia: i problemi legati alla prima sono ben diversi dai problemi legati alla seconda, a volte sono connessi e altre volte no, così come alcune volte le troviamo entrambe, contemporaneamente, mentre in altre circostanze soltanto una delle due. Questo perché una persona disabile non è per forza malata, così come non tutte le malattie provocano una disabilità, per questo non dobbiamo trattare i disabili come fossero dei pazienti: sono persone, non cartelle cliniche! Anche la «medicalizzazione» è un approccio da eliminare.

  • «Costretta in carrozzina»

La carrozzina non è qualcosa che «costringe», che inchioda e che rende prigionieri, bensì uno strumento di movimento e mobilità: rappresenta libertà, indipendenza e socialità. Non c’è niente di più prezioso di una carrozzina per una persona con disabilità, dato che questo ausilio le permette quasi sempre di muoversi nel mondo e di poter partecipare attivamente alla vita sociale: di sentirsi viva, altro che costretta! Se si deve specificare, meglio dire «che si sposta in carrozzina» oppure «che usa la carrozzina (per spostarsi) », eliminando quindi l’immagine di gabbia, di catena, di prigione che impone l’immobilismo. RICORDIAMO: Non si dice «carrozza» o «carrozzella» che sono quelle che vengono trainate dai cavalli! Si dice «carrozzina » o «sedia a rotelle» (al massimo, «sedia a ruote»).

Il volume "È facile parlare di disabilità. Se sai davvero come farlo" è stato scritto con contributi di: Vera Gheno; Fabrizio Acanfora, scrittore, attivista autistico, docente; Flavia Monceri, Professore Ordinario di Filosofia politica all’Università del Molise.


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