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“La timidezza delle chiome”, ovvero la disabilità della vita quotidiana

Nel film "La timidezza delle chiome" Joshua e Benjamin interpretano loro stessi, mostrando senza censure come può essere la vita di un ventenne affetto da una disabilità cognitiva, «un tema ancora poco rappresentato negli audiovisivi», dice la regista. Nonostante il teatro sia ritenuto un’attività terapeutica e quindi sia molto praticato dalle persone con disabilità, raramente una di queste raggiunge il grande schermo. Ma le cose stanno cambiando

di Nicoletta Martirano

Joshua e Benjamin Israel sono «due fratelli con la voglia di vivere la loro età e di trovare il loro posto nel mondo». Sono i protagonisti del film La timidezza delle chiome di Valentina Bertani, una lunga carriera come regista di clip musicali e video pubblicitari, ma ancora agli esordi nei lungometraggi. Joshua e Benjamin interpretano loro stessi, mostrando senza censure come può essere la vita di un ventenne affetto da una disabilità cognitiva, «un tema ancora poco rappresentato negli audiovisivi», sottolinea la regista.

La disabilità è parte della mia vita, essendo una sibling (fratello o sorella di persona fragile), per cui l’unica proiezione proposta nella mia città – Como, presso lo Spazio Gloria – mi interessa molto. Ancor mi incuriosisce il fatto che i protagonisti siano gli stessi Israel. Mi sembra un’idea insolita, molto difficile da realizzare. Sono piena di aspettative e credo che l’annunciata presenza della regista mi potrà dare delle risposte. A sorpresa, in sala vedo anche gli attori e mi affretto a stringere loro la mano. Benjamin è molto spigliato, mentre Joshua appare più riservato.

Inizia la proiezione. I titoli di testa, in un maiuscolo traballante e irregolare, mi ricordano la fatica dello scrivere di tanti studenti con difficoltà. La storia risulta composta da vari episodi, legati dal desiderio di raggiungere degli obiettivi di crescita: l’esame di maturità, imparare a guidare, provare l’amore e il sesso. Sono colpita dalla quasi totale assenza di filtri e mi viene il dubbio se ci sia mai stato un vero copione.

Jo e Ben hanno la fortuna di avere molti amici, alcuni normo-dotati, altri con varie disabilità. Questa mi sembra la situazione migliore, perché a volte si tende a inserire i bambini fragili in gruppi troppo omogenei, in un senso o nell’altro: o ambienti in cui sono gli unici a essere speciali, generando poi isolamento o, peggio, discriminazione (come ha denunciato di recente Anffas); oppure in centri appositi, dove l’unico contatto con la società esterna sono gli operatori ed educatori. Credo invece che l’amicizia abbia un ruolo fondamentale nella vita delle persone con determinate disabilità cognitive, perché è raro che riescano ad avere una famiglia propria: solo ultimamente si stanno formando coppie di giovani con sindrome di Down, tra mille dubbi e timori.

Compaiono i genitori (scoprirò anch’essi interpreti di loro stessi) e penso alla fatica di crescere non un solo figlio con disabilità, ma due e contemporaneamente. Li trovo un po’ rigidi, in certe situazioni trattano i due giovani come se fossero ancora dei ragazzini, ma poi penso a quali saranno di sicuro le loro incertezze, moltiplicate dalla disabilità: sarà questo il modo giusto? Ho fatto la scelta migliore per loro? Ho fatto bene a permettere il campeggio da soli, la patente, il tiro con l’arco? Dopo 96 minuti scorrono i titoli di coda e mi preparo a soddisfare le mie curiosità…

Il film è frutto di un incontro casuale: Valentina Bertani vede i due fratelli, viene colpita dal loro aspetto esteriore, decide di “fare qualcosa” con loro; li cerca, chiama a casa, propone la sua idea. Che cosa pensereste voi se una voce sconosciuta che si presenta come “una regista” vi dicesse che ha notato per strada vostro figlio con disabilità e volesse fare un film con lui? In molti sarebbe scattato il senso di protezione o il timore di un brutto scherzo. Sergio Israel e Monica Carletti, invece, dopo aver percorso già mille strade per far emergere le abilità di Jo e Ben (sport, musica, arte… una trafila che tutti i genitori di figli fragili conoscono a menadito) accettano di provare anche questa. Per Benjamin il mestiere dell’attore si rivela una vocazione; per Joshua, invece, la passione resta la musica, anche se per il momento presta servizio nel reparto “speciale” dell’esercito israeliano, «che è molto inclusivo», dice.

Si può anche essere gemelli omozigoti, nati e cresciuti nello stesso ambiente, ma non per questo bisogna essere uguali: come alcune piante, che per non farsi ombra a vicenda evitano di intrecciare i loro rami, fenomeno noto appunto come “la timidezza delle chiome”. E quando la regista sente parlare di questo singolare comportamento naturale, decide in corso d’opera che quello sarà il titolo. Del suo lavoro.

Tutta l’impresa, già nata per caso, è caratterizzata da una buona dose di adattamento: le riprese vengono infatti interrotte quasi immediatamente dal lockdown, ma la pausa forzata viene sfruttata per esplorare meglio il carattere dei protagonisti, le loro aspettative e desideri. Il film, inizialmente pensato come documentario, diventa presto una vera e propria narrazione e il finale, incerto fino all’ultimo, coglie di sorpresa non solo gli spettatori, ma la troupe stessa! Anche la co-protagonista Michela Scaramuzza, originaria di Como, viene trovata in modo fortuito: la sensibilità di Valentina Bertani nota nel video di una conoscente l’insolito modo di danzare di una ragazza e una volta contattatala, scoprirà che tale originalità è dovuta alla sordità, che le fa percepire la musica in modo del tutto diverso da chi ha la sorte di sentirla con le proprie orecchie. Per maggiore inclusività, quindi, il film è stato interamente sottotitolato.

Il tema della disabilità non è nuovo nel mondo del cinema, ma molto spesso si tratta di interpretazioni, dal famosissimo Dustin Hoffman in Rain Man all’ultima Miriam Leone in Corro da te. Nonostante il teatro sia ritenuto un’attività terapeutica e quindi sia molto praticato dalle persone con disabilità, raramente una di queste raggiunge il grande schermo e anche in questi casi è più facile vedere un attore in sedia a rotelle che uno con la sindrome di Down, forse perché il deficit fisico fa meno paura di quello cognitivo.

Ma sembra che le cose stiano iniziando a cambiare: le ultime Paraolimpiadi hanno avuto un grande séguito, la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) è entrata nei sussidi liturgici della Chiesa cattolica, attori e modelli con disabilità compaiono oggi nelle pubblicità e nelle sfilate di moda. La società si sta rendendo conto che la disabilità fa parte della vita quotidiana e quindi l’arte, specchio della realtà, fa bene a rappresentarla, senza edulcorazioni o commiserazione, ma com’è veramente.


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