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Senza figli, cara Virginia Raffaele, non è lo stesso

Avere figli è una libera scelta, certo. Ma per scegliere bisogna che i giovani siano messi nelle condizioni di poter scegliere. Oggi in Italia le condizioni spingono più verso la scelta di non avere figli piuttosto che averli. Mentre il desiderio resta quello di due figli. Risolvere il problema abbassando il desiderio non è una buona idea. Alessandro Rosina risponde alla Raffaele

di Sara De Carli

«Una donna può essere felice e completa anche se non ha figli. La parte materna la si può avere anche senza essere biologicamente madri». È questa la riduzione ai minimi termini – quelli per i social – che la Repubblica fa di un’intervista che Virginia Raffaele ha rilasciato a Oggi, dove là il titolo è sul “superpotere dell’ironia”.

A tema quindi non è tanto Virginia Raffaele, che di per sé dice cose anche scontate come affermare che «una donna può essere felice e completa anche se non ha figli», che la maternità – come la paternità – la si può vivere «anche senza essere madri biologicamente» e che la scelta di avere figli è un discorso «soggettivo e personale». A tema c’è la narrazione pubblica di un Paese che non solo non sostiene la libera scelta – personale e di coppia – di chi mette al mondo un figlio, ma che la priva di valore. Una narrazione pericolosa – diciamocelo francamente – in un Paese in cui le nascite sono in continuo crollo, il numero medio di figli per donna è 1,25 (tra i più bassi in Europa) e l'età media al primo figlio continua a salire. Il tutto mentre il desiderio di figli è in linea con la media degli altri paesi europei (vicino a 2): da noi il gap tra il desiderio e la realtà è più ampio che altrove, perché altri paesi hanno politiche familiari più solide delle nostre, noi no. Non si tratta quindi di “convincere” giovani donne e giovani uomini a diventare genitori per il bene del Paese o per pagare la sanità e la pensione a Virginia Raffaele e alla sua generazione, ma di mettere ognuno nelle condizioni di realizzare liberamente i propri desideri di genitorialità, quali che siano. Invece, dinanzi a un gap così ampio tra il numero di figli desiderati e il numero di figli generati, il gioco al ribasso del Paese pare quello di abbassare il desiderio, non di alzare le possibilità di realizzarlo. Raccontandoci che tanto è lo stesso, non ti crucciare, puoi essere felice anche senza figli. Che la rinuncia non sarà così pesante. Che la natalità è un tema di destra, riportandoci in pieno in uno scontro politico su un tema che di divisivo non dovrebbe avere nulla (al contrario di quello che il voto unanime sull’assegno unico universale per figli aveva per un attimo fatto sperare).

Alessandro Rosina insegna demografia all’Università Cattolica di Milano, cura dal 2012 il Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, la più estesa ricerca nel nostro Paese sull’universo giovanile, e ha appena pubblicato Storia demografica d’Italia per Carocci.

Professore, partendo dalla card di Repubblica lei ha scritto un post in cui si chiede «perché mai dovremmo spendere soldi per gli asili nido, per i congedi, per il sostegno ai giovani a formare una famiglia… Basta convincerci che stiamo tutti bene anche senza figli, come suggeriscono la Repubblica-Virginia Raffaele». Usa un verbo molto duro, quando si chiede «a quale futuro condanniamo il paese». E chiede una “operazione verità” nei confronti dei giovani, che si dovranno far carico di una combinazione tra debito pubblico e spesa sociale verso la popolazione anziana (crescente) sempre meno sostenibile. Perché tutta questa preoccupazione a fronte di dichiarazioni tutto sommato banali? Qual è il rischio che vede?

Il rischio è che a fronte dell’incertezza che i giovani hanno nei confronti di una scelta così impegnativa e vincolante, il messaggio sia quello di ridurre il desiderio di avere figli. Non prendiamoci in giro, oggi avere figli è una scelta, non è qualcosa di scontato: un tempo la condizione di base era quella di avere figli e la scelta stava nel ridurne il numero, oggi invece la condizione di bsae è non avere figli e serve una scelta deliberata per fare figli, una scelta che superi l’incertezza legata alle difficoltà a uscire dal nucleo familiare, ad entrare nel mondo del lavoro, ad avere una casa… Serve una scelta deliberata contro tutto questo per far sì che la scelta di avere dei figli non sia rinviata in continuazione finché nei fatti diventa la scelta di non averli. Noi in questo momento abbiamo meno giovani rispetto ad altri paesi, ma con un desiderio di avere figli simile a quello degli altri giovani europei: due figli. Se però culturalmente si indebolisce anche quel desiderio – che significa ridurre il loro desiderio di realizzare al meglio il proprio progetto di vita, invitandoli ad accontentarsi di avere un reddito basso, un lavoro incerto, meno figli di quelli che desiderano – il rischio è che il rinvio attuale diventi una rinuncia. Il messaggio che stiamo dando è questo: accontentavi, sarete realizzati lo stesso. Ma perché dovremmo essere orgogliosi di diventare il paese della rinuncia?

Ovvio che avere o non avere figli è una libera scelta. Il tema, ancora una volta, è essere messi nelle condizioni di poter avere i figli che si desiderano, per chi li desidera.

Sì, non si tratta di convincere nessuno ad avere figli se non li desidera, ma di ridurre il divario tra il il numero di figli desiderati e la realizzazione di questo desiderio. Per farlo, non basta essere in età fertile, devi vivere in una società fertile, cioè in una società che riconosca quella scelta come una scelta di valore. Se invece la realtà è negativa – avere figli è qualcosa che ti impoverisce, che ti fa rinunciare al lavoro, le politiche familiari sono carenti – quando ti arriva il messaggio che anche se rinunci ti puoi realizzare lo stesso e che avere figli è irrilevante per la tua realizzazione… cosa potremo aspettarci? Però è una trappola, perché se tutti i giovani oggi “ascoltassero” Virginia Raffaele, tutta la generazione di Virginia Raffaele non avrà nessuno che pagherà sanità, cure, pensioni. Ora, è ovvio che nessuno fa figli per pagare le pensioni a qualcun altro, né per garantire la sostenibilità del welfare, né per “salvare” il Paese, non è questo il punto: il punto è che il Paese ha tutto l’interesse a sostenere la scelta positiva – libera e personale – di mettere al mondo un figlio, perché questa è oggettivamente una scelta che ha ricadute sociali positive, che rende il paese più dinamico e che garantisce una maggiore sostenibilità nell’equilibrio tra le generazioni. Quindi non si tratta di imporre nulla, ma di mettere i giovani nelle condizioni di poter realizzare la scelta di avere un figlio, senza impoverirsi e senza rinunciare al lavoro. Il Paese dovrebbe investire sulle politiche familiari perché è meglio investire oggi qui piuttosto che trovarsi tra 20-30 anni con costi insostenibili: una società deve immaginare le generazioni che vanno oltre quelle presenti, non può restare chiusa nelle generazioni che ci sono attualmente, deve aprirsi verso il futuro, biologicamente e culturalmente.

Qualche numero da ricordare a chi pensa che avere figli o non averne è lo stesso e che non c’è nessun problema se i giovani non fanno più figli?

Primo, c’è un crollo della fecondità sotto i 30 anni, che dice che il problema non è più solo quello del secondo figlio ma addirittura del primo figlio, che viene rimandato continuamente. Secondo, gli under 30 in Italia sono già il 27% mentre erano oltre il 50% negli anni Cinquanta, quando l’economia italiana era dinamica: la media europea è attorno al 32%. Terzo, siamo la società con un divario maggiore tra giovani e anziani, siamo stati il primo paese al mondo in cui il numero degli under 15 è sceso sotto quello degli over 65. Nel 2050 avremo un rapporto 1 a 1 tra chi lavora e chi è in pensione: uno scenario del genere dice evidentemente di una implosione della società. Ma sarà anche peggio, in verità, perché prima di arrivare all’implosione, i nostri pochi giovani se ne saranno andati: temo infatti che la scelta più razionale per loro sarà decidere di andare all’estero per sottrarsi all’aumento del debito pubblico e ad uno squilibrio che sarà a tutto vantaggio delle persone anziane. Questo rallenterà ancora di più l’economia.

Le forze di maggioranza in campagna elettorale hanno puntato molto sul tema della natalità, ma ora con i primi provvedimenti non sembrano crederci: l’assegno unico per esempio viene rafforzato ancora una volta solo in base all’Isee, come politica sociale e non come politica familiare. Come giudica lei le prime azioni del Governo?

Ancora molto timide. L’assegno unico va rafforzato nella sua componente universale e invece ne siamo ancora lontani. Sull’aumento della copertura dei servizi per la prima infanzia, sui territori ci sono grossissime difficoltà. Servono politiche di conciliazione che siano anche di condivisione, con il rafforzamento dei congedi pagati almeno all’80% che valgano sia per le madri sia per i padri. Su queste tre cose non abbiamo segnali concreti, ma solo rassicurazioni. La verità è che non possiamo pensare alle politiche familairi e per i giovani di anno per anno, vedendo quali risorse ci sono di volta in volta: ci serve un obiettivo, che detti l’approccio. E l’obiettivo è chiaro, non può che essere uno.

Quale?

Puntare a quota 500mila nascite. Entro dieci anni, dobbiamo tornare a 500mila nascite: è l’unica possibilità che abbiamo per invertire la tendenza, dopo sarà troppo tardi, dovremo rassegnarci ad una implosione irreversibile. Questo non ci evita il declino della popolazione, che c’è già. Ciò che ci giochiamo è la possibilità di avere equilibri demografici tra le generazioni che siano sostenibili. Se questo è l’obiettivo, vanno messe tutte le risorse che servono e bisogna farlo in maniera sistematica: migliorando le condizioni dei giovani, facilitandone l’ingresso nel mondo del lavoro, facendo politiche abitative, attuando politiche di conciliazione, favorendo l’occupazione femminile… tutto questo insieme metterà i giovani nelle condizioni di scegliere liberamente se avere o no dei figli. È anche la via per avere giovani stranieri, preparati, che nel nostro Paese cerchino la loro opportunità e vogliono formare una famiglia: diversamente queste persone sceglieranno altre mete.

Ed è un obiettivo raggiungibile?

Ancora sì, ma solo se agiamo in maniera sinergica su tutte queste leve, dai servizi per la prima infanzia, all’occupazione femminile, alla conciliazione, all’immigrazione, al lavoro, alla casa… È impossibile arrivarci se salta anche solo una delle leve.

Perché questo non è un tema di destra? Perché nei commenti, gira e rigira, si torna sempre lì, ai figli per la patria…

Lo dicevo prima, nessuno fa figli per garantire la tenuta del welfare del paese. Quel che c’è da fare è mettere i giovani nelle condizioni di realizzare quelle scelte individuali e di coppia che hanno ricadute positive a livello sociale. Non si tratta di convincere i giovani ad avere figli, allo stesso modo in cui non si tratta di convincerli a restare in Italia… si tratta di metterli nelle condizioni di poter scegliere, perché altrimenti se non ci sono le condizioni quella di non avere figli non è una scelta: è l’unica opzione possibile. Per scegliere, bisogna che ci siano le condizioni di scelta. Poi ciascuno è libero di dire "ho un lavoro ma scelgo di restare a vivere con i miei", "ho un lavoro e scelgo di non avere figli", "ho figli e scelgo di non lavorare per dedicarmi a loro": queste sono scelte individuali. È il contrario del tanto paventato fascismo: è qualcosa che incoraggia le scelte libere e personali, riconoscendo valore a quelle che hanno un riscontro positivo per la società.

Foto di © Fabio Mazzarella/Sintesi


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