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Il ministero della solitudine

Nelle vite dei protagonisti della piece della compagnia lacasadargilla non hanno funzionato le reti familiari, i circoli amicali, i rapporti di vicinato e prossimità, l’intervento della società civile organizzata. La china dei cinque personaggi, che invocano l’intervento pubblico, è in fondo un grido nei confronti di una umanità che non ha saputo, non ha potuto, non ha voluto intervenire in una prospettiva di solidarietà. Ma è anche la denuncia dell'impotenza delle vecchie liturgie della pubblica amministrazione

di Luca Gori

Merita di essere visto Il Ministero della Solitudine, un lavoro teatrale della compagnia lacasadargilla, co-diretto da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Si potrebbe pensare di essere davanti a una distopia. La vicenda, infatti, narra dello sviluppo di un apparato burocratico, che secondo tutte le logiche proprie dell’organizzazione del potere pubblico, è incaricato di occuparsi istituzionalmente della questione della solitudine dei cittadini. Sulla scena sono portati cinque possibili “utenti” del Ministero, che hanno diverse traiettorie di vita e appartenenze (classi sociali, generi, generazioni, formazioni, ecc.).

Eppure si scopre (sorprendentemente!) che di distopia non si tratta, ma dell’immaginazione di un possibile – e credibile – sviluppo di una scelta politica assolutamente contemporanea. Sebbene sia un lavoro a-storico, collocato in una indefinita contemporaneità, intercetta una tendenza nitida del nostro tempo. Il titolo stesso si riferisce all’istituzione, nel Regno Unito, di una figura ministeriale che si occupi a livello politico e amministrativo della solitudine, con l’obiettivo di combatterla e prevenirla. Si è trattata di una scelta non estemporanea o eccentrica dell’allora Primo Ministro conservatore May, ma dell’esito di un lavoro istruttorio condotto da una commissione parlamentare promossa da Jo Cox (parlamentare laburista uccisa barbaramente da un estremista nel 2016), in un clima sostanzialmente bi-partisan. La commissione richiedeva al Governo inglese di istituire una struttura ministeriale per costruire un vera e propria loneliness policy dotata di qualche efficacia. Con l’approccio tipicamente prammatico inglese, nel 2020, il Governo inglese ha addirittura stimato l’impatto della “solitudine” sulla finanza pubblica (misure sociali, costi sanitari, perdita di produttività, ecc.).

Poco dopo, il Giappone ha istituito una analoga posizione ministeriale nel 2021, con una sensibilità specifica al tema del suicidio, vera e propria emergenza nipponica. Ma l’attenzione globale sul tema sta rapidamente crescendo: anche l’Unione europea sta sviluppando una serie di ricerche e di interventi per contrastare la solitudine degli europei, monitorando attori in campo e azioni realizzate.

Il lavoro teatrale ha quindi il merito indubbio di richiamare l’attenzione dello spettatore su una questione, dai contorni così sfrangiati e indefiniti, che ha difficoltà a emergere perché – evidentemente – è difficile che i solitari si aggreghino fra di loro, e svolgano un’azione di advocacy nei confronti della politica e delle istituzioni. Si potrebbe dire che è uno spettacolo che è percorso da una denuncia sociale assai forte, sebbene posta con garbo e non senza qualche sorriso. I cinque protagonisti in scena si incontrano talvolta, ma non hanno mai una “relazione”, non riescono a connettersi fra loro in un rapporto in grado di imprimere un cambiamento nelle loro vite. Il loro unico punto di connessione è, appunto, Il Ministero. Ed è qui che la pièce teatrale – a mio giudizio – trova una sua possibile chiave di lettura importante per aprire una riflessione sul potere, i suoi limiti e le sue risorse e il rapporto con i cittadini. Il Ministero della Solitudine è (anche) un dramma contemporaneo sul potere. Se, da un lato, appare giusto e doveroso che il potere pubblico si incarichi, in qualche modo, dell’esistenza solitaria di questi cinque personaggi alla deriva, dall’altro la risposta elaborata – su cui la drammaturgia riflette con intelligenza – mette in luce una assenza e una presenza assai problematiche.

L’assenza è quella di tutte le reti di protezione sociale consuete che, in una logica sussidiaria, dovrebbero rendere l’intervento pubblico come una extrema ratio o addirittura inutile. Nelle vite dei protagonisti non hanno funzionato le reti familiari, i circoli amicali, i rapporti di vicinato e prossimità, l’intervento della società civile organizzata. La china dei cinque personaggi, che invocano l’intervento pubblico, è in fondo un grido nei confronti di una umanità che non ha saputo, non ha potuto, non ha voluto intervenire in una prospettiva di solidarietà, che è innervata da libertà. Ti aiuto perché lo voglio, in quanto siamo umani, si potrebbe dire. Il Ministero della Solitudine è la certificazione di questa assenza, è la sostituzione a questa logica di relazione orizzontale, di quella verticale del potere (ti aiuto perché sono obbligato dalla legge). E alla relazione fra umani si sostituisce quella giuridica fra un diritto alla prestazione e un obbligo di intervenire.

La presenza, invece, è quella del Ministero. Quell’assenza, di cui si diceva, viene riempita dal potere pubblico, con le sue logiche organizzative e funzionali. Il lavoro della compagnia lacasadargilla ci mostra come, pur a fronte di un problema così grave, il “potere” si organizza. Il potere conosce un suo codice e, a prescindere dal tema affrontato, a esso si attiene: lo impone, in fondo, lo stato di diritto. In primo luogo, definire una tassonomia della solitudine, perché ogni istanza deve avere una classificazione, foss’anche solo a fini statistici; elaborare una scala di misurazione del grado di solitudine; poi, delineare un procedimento amministrativo che consente al potere di entrare in contatto con le persone, in forme imparziali ed efficienti; ancora, individuare canali di comunicazione che non si allontanino dall’iter procedimentale, indulgendo in personalismi; dotarsi di una struttura materiale – un edificio – che renda evidente che quel tema è presidiato dal potere pubblico (al termine si annuncia che il Ministero si doterà di una “nuova sede”); organizzare uno squallido evento sociale che dovrebbe costituire l’incubatore di nuovi legami ma che è solo la celebrazione del “potere”.

Due i meriti principali di questo lavoro teatrale, letto con la sensibilità di un giurista. Il primo è mostrare come il potere pubblico abbia bisogno di una attivazione comunitaria ampia, che apporti una certa dose di innovatività per affrontare una questione così complessa e sfuggente (qui è la solitudine, ma lo stesso schema può valere per altre questioni: l’abbandono scolastico, la natalità, la dipendenza, ecc.). La solitudine, infatti, si presenta in forme così variopinte e attraversa tutte le vite, al punto che alcuno può dirsene autenticamente estraneo. Siamo tutti soli, in definitiva: è solo questione di tempo e di luogo in cui lo saremo. Se è così, però, serve lo scatto di fantasia che consenta di rispondere in forme nuove, magari ibridando potere pubblico e risorse comunitarie.

Ma l’altro merito è mostrare, plasticamente, come il potere, secondo le proprie liturgie che non funzionano più in quasi nessun ambito dell’amministrazione, con un dicastero o una agenzia ministeriale, non possa porre rimedio a un dramma di questa portata. Credere diversamente è solo una pia illusione che elude una domanda cruciale sulla responsabilità di ciascuno (e di tutti) verso la trama della comunità dove si vive. Ci penserà il Ministero: manderà una macchina nera, bellissima, lussuosa e tutto sarà risolto, senza costi e senza attivarsi. Un grido per una sana diffidenza verso il potere, e un vigoroso appello alla libertà solidale di ciascuno, quindi: dell’uno e dell’altro c’è un disperato bisogno.


credit foto: Claudia Pajewsky

* Scuola Superiore Sant’Anna, centro di ricerca Maria Eletta Martini


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