Welfare & Lavoro

I broccoli, la pioggia e quei tre ragazzi neri

Il cognitivista Ugo Morelli ha tuittato stamane un'immagine di un gruppo di contadini africani in un campo del Casertano. Intenti a raccogliere ortaggi sotto la pioggia. Presa dal finestrino di un treno, la foto tratteggia appena il colore dei loro impermeabili. Un tweet che ha commosso molti. Gli abbiamo chiesto di approfondirlo per VITA

di Ugo Morelli

Tre ragazzi, neri, raccolgono broccoli di rapa sotto la pioggia nelle campagne nei pressi di Caserta. Si intravedono solo le macchie, una gialla e due verdi dei loro improbabili e inattendibili impermeabili. Noi al caldo, nel treno che mi porta a Trento.

Resi incerti dalla pioggia abbondante che scorre sul vetro del finestrino e altera le immagini, non sembrano persone. Qua è là si intravedono le cassette di broccoli che hanno raccolto. Il valore di circa un euro l’una, delle sei o sette che raccoglieranno in giornata. Una nebbia sottile inumidisce l’aria e rende ancora più vaga la loro presenza. Proprio come li vogliamo. Presenti per fornire le loro prestazioni di nuovi schiavi, ma dissolti nel nulla non appena hanno finito di lavorare per la loro paga di fame. Se hanno attese di esprimersi, curarsi, mandare a scuola i figli, abitare in una casa e non in tuguri o baracche, allora divengono insopportabili.

Emerge il colore della loro pelle e persiste come un fattore inaccettabile. Si manifestano le loro abitudini alimentari e dovrebbero immediatamente sparire. Per non parlare dei loro credi religiosi e delle loro lingue; dei loro costumi e dei loro modi di vestire. Mi accorgo di aver usato “loro” innumerevoli volte. Ed è così. Non li riteniamo “noi” neppure se sono nati nel paese in cui vivono e viviamo, in nome di un diritto particolarmente odioso, quello del sangue.

Come se il loro sangue fosse diverso dal nostro. Il loro diritto ad esserci e ad esprimere le proprie esistenze diviene automaticamente annullato dal nostro diritto di essere padroni e presunti superiori. Eppure, sappiamo che ci sono più differenze genetiche tra due nati in qualsiasi comune del paese che riteniamo nostro, che quei due e un subsahariano o un singalese. Semplicemente perché le razze non esistono. Ciò, purtroppo non vuol dire che quel costrutto inventato, la razza, non abbia prodotto e non produca conseguenze tragiche, nella storia e nel presente.

Mi viene da chiedermi come mai non riusciamo a stabilire una connessione tra la negazione di quelle presenze, che operiamo in molti modi e sistematicamente, e il pur giusto impegno a denunciare e protestare per la negazione dei diritti in molte delle altre parti del mondo, come accade in queste settimane a proposito della situazione iraniana. Sarebbe necessaria un’associazione fra fenomeni che solo apparentemente sono diversi. Non farlo significa scadere in una condizione, quella del non conformista alla moda, che un grande pensatore come Valdimir Jankélévitch ha così bene stigmatizzato: «Di tutti i conformismi, il conformismo del non conformismo è il più ipocrita e il più diffuso oggi. È questo il diavolo che ci spia, ci sorveglia e ci bracca…».


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