Welfare & Lavoro

Quando l’autore di violenza è lo Stato

Si svolge a Firenze venerdì 20 gennaio la conferenza nazionale degli assistenti sociali sulla “Violenza istituzionale". Si parlerà di carceri, migranti, persone con problemi di salute mentale o di tossicodipendenza e ovviamente di servizi sociali. Barbara Rosina, vicepresidente del Cnoas: «Ogni comunità professionale, quando viene conclamata una forma di violenza addebitabile a un proprio membro, dovrebbe schierarsi dalla parte della vittima e non coprire mai un colpevole»

di Sara De Carli

In carcere, nelle aule dei tribunali, nei comportamenti violenti delle forze dell’ordine, nella gestione dei migranti, nelle strutture di ricovero delle persone con problemi di salute mentale o di tossicodipendenza, nel servizio sociale… A volte è lo Stato – in ogni sua forma, compresi i gli assistenti sociali – a diventare un nemico: quando chi ti dovrebbe proteggere ti colpisce, quando una vittima diventa colpevole, quando legge e giustizia sono lontanissime. Si parlerà di questo venerdì 20 gennaio a Firenze, nella conferenza nazionale degli assistenti sociali dedicata alla “Violenza istituzionale". Ne parliamo con Barbara Rosina, vicepresidente del Cnoas.

Cos'è la violenza istituzionale, che dimensioni ha il fenomeno nel nostro Paese, perché si verifica?

Tante domande in una, ma tutte inevitabilmente legate. La violenza istituzionale si verifica quando lo Stato – in ogni sua forma, compresi noi professionisti assistenti sociali – diventa il nemico. Quando chi ti dovrebbe proteggere ti colpisce e addirittura ti uccide, quando una vittima diventa colpevole, quando l’Autorità fa ingiustizia, quando legge e giustizia sono lontanissime tra loro. Le dimensioni del fenomeno, in Italia, non sono certo quelle di cui sentiamo parlare a proposito di Paesi lontani dal nostro, ma ricordiamo che dopo i fatti del G8 di Genova del 2001 la Corte Europea per i diritti umani ci ha condannati per i trattamenti e le pene inumane e degradanti. Soltanto nel 2017 abbiamo introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura e istigazione alla tortura, ma dai casi più antichi come la morte di Stefano Cucchi o più recenti come i pestaggi nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere o di Ivrea, si capisce che le violenze non si sono fermate. Per non parlare del sovraffollamento degli istituti di pena, dei suicidi dietro le sbarre – 84 nell’anno trascorso, la metà dei quali di persone in attesa di giudizio – ma anche delle file inumane per avere un permesso di soggiorno o dei sei anni di un processo o della vittimizzazione secondaria dove chi ha subito diventa colpevole… Perché si verifica? Perché lo Stato dimentica di garantire i diritti civili, di sicurezza, di salute, sanciti nella nostra Costituzione. Quando si perde questo quadro generale, quando le componenti della Repubblica abdicano a precisi doveri e responsabilità di garanzia di condizioni di vita rispettose dei diritti delle persone, ecco che ci troviamo nel terreno ideale per il maltrattamento istituzionale, la violenza di Stato per l’oppressione di molti.

Lo Stato non è un’entità astratta. Perché lo siamo anche noi. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo cercare di contrastare le forme di discriminazione e di oppressione. Ci proviamo, ma non sempre siamo in condizione di farlo al meglio. Sbagliamo per tanti motivi e situazioni, ma non possono essere giustificazioni. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – dobbiamo essere consapevoli che abbiamo più responsabilità di altri.

Ci sono categorie di cittadini più colpite di altre?

Se dovessi individuare una categoria… direi i più fragili. Fragili per varie ragioni. Perché minorenni e dunque indifesi se non hanno avuto la fortuna di avere genitori capaci di proteggerli e assicurare loro serenità e benessere. Perché sofferenti di una malattia mentale o di un handicap o perché anziani soli e con gravi problemi di salute che rendono impossibile una vita normale. Perché privi di mezzi per accaparrarsi i migliori avvocati e garantirsi una competente difesa in giudizio. Perché soli davanti a chi ha il potere e lo esercita contro la legge…

Perché il Cnoas ha deciso di mettere a tema, nella formazione degli assistenti sociali, la violenza istituzionale?

Perché lo Stato non è un’entità astratta. Perché lo siamo anche noi. Noi assistenti sociali siamo parte del sistema e dobbiamo cercare di contrastare le forme di discriminazione e di oppressione. Ci proviamo, ma non sempre siamo in condizione di farlo al meglio. Sbagliamo per tanti motivi e situazioni, ma non possono essere giustificazioni. Tutti sbagliano, ma i professionisti – noi per primi – dobbiamo essere consapevoli che abbiamo più responsabilità di altri. Come Ordine abbiamo deciso di accendere un faro su ciò che facciamo e soprattutto sul come. Abbiamo deciso, con questa conferenza nazionale, di ascoltare storie che ci toccano profondamente come persone, cittadini e professionisti. Vogliamo aprire un dibattito su come il servizio sociale può ridurre il rischio di maltrattamento, ripensare strumenti e organizzazioni per non essere strumento oppressivo, ma fattore di vero cambiamento e promozione per le comunità. Non è mai semplice prendersi le responsabilità di decidere, di intervenire o meno, ma nessuno di noi si deve sottrarre all’evidente necessità di riflettere e approfondire, di accettare gli errori fatti e provare a riparare.

In che modo si può incidere su pregiudizi, stereotipi, bias cognitivi e su quanto contribuisce al ripetersi della violenza istituzionale?

I bias cognitivi traggono origine dal pregiudizio, dalla scarsa conoscenza, da visioni soggettive che non rispecchiano in modo fedele la realtà. Noi sappiamo che spesso le decisioni possono essere prese in modo corretto, proprio sulla base di bias che diventano come delle scorciatoie che ci permettono di agire in modo veloce, ma dobbiamo interrogarci per tutte quelle situazioni in cui possono portare ad un errore di valutazione o alla mancanza di oggettività di giudizio. Per riuscire a cambiare le cose, siamo convinti che di queste situazioni si debba parlare, ed è il primo passo per farlo è proprio quello della rilevanza che abbiamo dato al tema nella nostra quarta conferenza nazionale. Ma occorre poi modificare la formazione dei professionisti, sia di base che continua, in modo da considerare l’oppressione, la violenza e il maltrattamento istituzionale non soltanto attraverso l’attenzione alle relazioni interpersonali ma anche osservando come tali relazioni si costruiscono all’interno di strutture e processi socio-culturali più ampi. Un ultimo passaggio è fondamentale: bisogna spostare l’attenzione dalle presunte incapacità degli operatori, dalla ricerca di responsabilità individuali a problemi sociali strutturali, ad una lettura dei sistemi nei quali gli operatori lavorano, alla narrazione che si fa del lavoro di cura, che non può essere appiattito ad una serie da prestazioni da erogare, ai criteri ed ai vincoli imposti dalle organizzazioni.

Occorre modificare la formazione dei professionisti in modo da considerare l’oppressione, la violenza e il maltrattamento istituzionale non soltanto attraverso l’attenzione alle relazioni interpersonali ma anche osservando come tali relazioni si costruiscono all’interno di strutture e processi socio-culturali più ampi.

Cosa dovrebbe cambiare?

Molto e molti. Prima di tutto ogni categoria – dai magistrati agli avvocati, dalle forze dell’ordine agli impiegati degli uffici pubblici, dai consulenti a noi assistenti sociali – quando viene conclamata una forma di violenza addebitabile a un proprio membro dovrebbe schierarsi dalla parte della vittima e non coprire mai un colpevole. A Firenze, avendo ascoltato gli esperti per esperienza, portiamo proposte che coinvolgono tutti. Chiediamo riunioni all’interno di carceri, ospedali, comunità, per migliorare la condizione di persone con problemi di tossicodipendenza; la programmazione nazionale di interventi nel rispetto delle leggi 833 e 180, delle indicazioni dell’Oms, della convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e fragilità; la definizione di linee guida per la prevenzione della violenza; la collaborazione con le scuole per favorire la conoscenza dei problemi di salute mentale e individuare segnali di disagio nei minori.

Cosa sta nelle mani di voi assistenti sociali per provare a cambiare le cose?

Non possiamo certo intervenire sulla durata dei processi o sulle lentezze burocratiche, ma sta a noi non coprire le inefficienze dei servizi, bensì evidenziare le difficoltà che abbiamo ad operare senza risorse dedicate. Come professione dobbiamo comprendere gli errori commessi, capire cosa non ha funzionato e i motivi, senza paura di essere attaccati e senza alzare barriere difensive. Ma per cominciare dobbiamo esserci e ascoltare per prevenire. Il concorso per 413 assistenti sociali nel sistema giustizia, così come la previsione del livello essenziale di un assistente sociale ogni 5mila abitanti in ogni comune del nostro Paese, sono il segnale di una carenza che si vuole colmare. La strada è ancora lunga, noi vogliamo percorrerla per migliorare e riconoscere cosa possiamo fare per essere dalla parte di chi è più debole. Speriamo di non essere i soli ad intraprendere questo percorso.


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