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Famiglia & Minori

Una figlia che è fatta d’aria. Una madre che ha paura di volare via. Cos’è la vita?

** Ada D'Adamo ha vinto lo Strega. Un riconoscimento postumo alla grande scrittrice scomparsa il 1 aprile scorso. Ripubblichiamo l'articolo che VITA le dedicò a febbraio.**“Come d’aria” è la storia di una bambina, Daria, che nasce con una grave disabilità e della sua mamma, Ada, che a cinquant’anni scopre di avere un tumore. E’ un libro di una straordinaria bellezza e durezza. Difficile da leggere e da digerire, perché intriso di dolore e di dolcezza. C’è la luce e grazia. Speranza, a tratti. Non ci sono però dogmatismi. Nemmeno quando Ada si domanda che senso abbia la vita di sua figlia. O quando ammette: «Se voglio guarire tu non puoi più essere il mio centro, ma a che prezzo?».

di Sabina Pignataro

07 luglio 2023, ore 00,16

Ada D'Adamo ha vinto, poco fa, il Premio Strega. Ada D'Adamo però è morta alcuni mesi fa, il 1 aprile, e questo prestigioso riconoscimento al suo Come d'aria (Elliot), che aveva già vinto lo Strega Giovani, è purtroppo un omaggio postumo a una grande autrice. Ripubblichiamo il delicato pezzo che le dedicò, nel febbraio scorso, Sabina Pignataro.

Come d’aria” è la storia di una mamma, Ada, e di sua figlia, Daria. Ma è anche un viaggio, un’immersione a testa sotto, in apnea, dentro l’esistenza di due creature le cui malattie riempiono di vacuità la parola futuro.
Daria è la bambina che nasce con una malformazione rara che la rende cerebrolesa, cieca, muta, incapace di muoversi. Ada è la sua mamma che a cinquant’anni, dopo una vita in burrasca, scopre che nel suo corpo di ballerina alberga un tumore.

Il libro "Come d'Aria", della casa editrice Elliot, è di una straordinaria bellezza e durezza.
Nella trama. Nella scrittura. Nei pensieri. Nelle parole. Non è facile da leggere. E nemmeno da digerire. Sono pagine rarefatte di dolore profondo, autentico. Ogni aggettivo, ogni sostantivo non è mai buttato lì per caso, ma è stato ingurgitato, attraversato, masticato, smontato, lasciato fermentare sul proprio corpo, ricomposto e poi restituito in una forma che è potente e prepotente allo tempo stesso. Che chiede di essere ascoltata e rispettata.

Lasciamo che siano le parole dell’autrice a parlare:

«Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura».

Nelle sale d’attesa, di fronte al dolore degli altri, le piaghe si rinnovano. Il tormento di uno diventa il tormento di tutti. Un moltiplicarsi all’ennesima potenza. Entrare nelle corsie degli ospedali significa, anche, ogni volta smettere di avere un nome proprio e diventare semplicemente “mamma”. Non più donna, non più persona, sono un ruolo.

«Ti prude? Mamma ti gratta. Ti duole? Mamma ti massaggia. Hai caldo? Mamma ti sventola. Hai freddo? Mamma ti copre. Ti brucia? Mamma ci soffia. Hai sonno? Mamma ti culla. Non dormi? Mamma ti racconta. Piangi? Mamma ti consola».

Episodi che fanno rabbia, fanno tenerezza, fanno pietà, fanno pure sorridere, quando gira bene. Frammenti di dolcezza infinita. Eccole ancora le parole dell’autrice:

«La malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine. Lo scrive John Donne, lo leggo nelle storie di persone in cui vedo riflessi pezzi della mia vita. Solitudine: un uomo di quasi settant’anni uccide il proprio figlio disabile. Solitudine: una moglie cerca di aggredire chi ha occupato il posto macchina assegnato al marito invalido. Solitudine: una famiglia si rivolge ai servizi sociali perché non vuole più occuparsi del figlio undicenne, autistico. Sono tutte storie vere, comparse in questi anni sulle pagine di cronaca. Storie in cui si fa fatica a capire chi è la vittima e chi il carnefice. Ma io sento di capire entrambi, perché mi sento entrambi. Mi chiedo, nello stesso tempo: “Come hanno potuto?”, ma anche: “Come hanno fatto a non crollare prima”?»

Talvolta prevale la rabbia, il rancore, la rassegnazione, il senso di giustizia o di ingiustizia. Altre l’affetto, l’ammirazione, la gioia, persino. Di fatto, comunque, quando nasce un figlio con una disabilità così importante, scrive l’autrice, «indietro non si torna. Uguale a prima non sarà più».

«È come se dentro di te si fosse accomodato il punteruolo delle palme che rosicchia la pianta dall’interno piano piano, la trasforma in un involucro pieno di segatura. La superficie resta uguale, ma sotto i bordi, sotto la pelle, non resta più niente».

Non ci sono dogmatismi. Mai. Nemmeno quando Ada si domanda che senso abbia la vita di sua figlia. Quando Daria era piccola, la donna scrisse una lettera ad Augias, affinchè fosse pubblicata su Repubblica: «Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico». Tanti interrogativi. Dubbi. E nessuna certezza. Solo la consapevolezza e la misura delle sue parole, così lontane dal vociare scomposto e aggressivo che rimbalzava sulla bocca di tanti.

«Volevo spezzare la divisione tra buone e cattive madri. Non volevo piegarmi all’ipocrisia, auto includendomi senza alcun merito nel novero delle donne che avevano abbracciato la croce ed erano citate come esempio di virtù. Io la croce avrei preferito non caricarmela sulle spalle, la virtù non l’avevo scelta. Non mi sentivo, e non mi sentirò mai, una “madre coraggio”, e sapevo che solo una mancata diagnosi prenatale mi divideva dal branco di quelle considerate egoiste, infami, omicide».

Ogni volta che sopraggiunge, la malattia rompe un equilibrio. È accaduto prima dentro Ada, e poi inevitabilmente, nella relazione con Daria. E questo tumore è la mano furtiva del destino che si ruba ogni cosa, come una risacca che cancella i disegni sulla sabbia.

«Quando eri piccola la nostra relazione era prevalentemente fisica. Tutto passava attraverso il contatto: pelle da sfiorare, lacrime da asciugare, pancia da massaggiare, piedi da riscaldare, dita da rilassare, capelli da accarezzare. […] Ora che sei cresciuta e io mi sono ammalata, l’incastro dei nostri corpi non è più possibile. Adesso mi manca quell’intimità totale: respiro, odore, saliva e moccio, sudore, capelli incollati»


Il suo cuore di mamma, e di donna, si dibatte in una costante ambivalenza emotiva:

«Se volevo guarire tu non potevi essere più il mio centro, dovevo spostarmi, riposizionarmi altrove. Per sopravvivere dovevo trovare un centro mio, la cura di me. Ma come? E a quale prezzo? […] La metafora della caduta suggella la mia natura cancerosa: cado di nuovo, ri-cado, sbatto dove già avevo un livido. La sutura si riapre, torna a strapparsi quel che già da tempo era lacero».

Le domande di senso che sgorgano dalla malattia investono con prepotenza l’intera esistenza di Ada e di Daria. E di chiunque si lasci sfiorare da queste pagine. Sorgono interrogativi esistenziali sul senso della vita, dei legami, della salute. Sul significato del presente e del futuro. Domande che spesso vengono posticipate e che pur sono ineludibili.

«Mi sento il cuore di pietra. Duro, inscalfibile. Sono tre mesi e mezzo – da quando ho cominciato la chemioterapia – che penso alla mia morte, a come organizzare tutto perché non crolli tutto quando non ci sarò più».

E mentre l’involucro si sfarina, le domande si fanno impellenti, le paure fagocitano il presente e il futuro questa madre si mette a scrivere questo libro meraviglioso, che altro non è che una testimonianza di fede laica e di amore per la figlia. Se il cuore è di pietra, le lacrime innaffiano le parole che tornano vive. E ci tengono vivi. Grazie Ada, grazie Daria.

Si ringrazia la casa editrice Elliot e l'autrice per aver autorizzato la pubblicazione di alcuni stralci


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