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Politica & Istituzioni

Sanremo pieno e urne vuote

A differenza delle urne lombarde e laziali, nella piazza virtuale del Festival appena concluso c’erano collegate quasi 13 milioni di televisioni, aggregando il 66% di tutti i telespettatori italiani. Alla fine forse conviene ripensare il rapporto tra leggerezza e politica: non torneremo ad una nuova partecipazione democratica alle urne riducendo al Festival lo spazio politico che oggi occupa, ma imparando da Sanremo a fare politica quotidiana

di Angelo Moretti

Un tempo si usava un adagio per giustificare la asimmetria tra i successi delle grandi manifestazioni di piazza (animate per lo più dal variegato mondo della sinistra parlamentare) ed i risultati elettorali di quella stessa sinistra: “piazze piene ed urne vuote”, una affermazione che non indicava ancora il fenomeno dell’astensionismo, ma puntava il dito sulla distanza tra la percezione della mobilitazione di massa e l’affermazione elettorale concreta dei partiti che la ispiravano.

Oggi quel tempo ci sembra lontanissimo: le più grandi manifestazioni italiane di piazza degli ultimi decenni non hanno alcun partito alle spalle, sono nate per chiedere la pace nel mondo, vedasi i centomila manifestanti di Roma del 5 novembre scorso, o il riconoscimento effettivo dei diritti civili, come il successo di folla dei diversi gay pride italiani. Altro grande fenomeno di piazza dei nostri tempi sono poi i megaconcerti, come quelli di Vasco, che hanno battuto ogni record di spettatori paganti dal secondo dopoguerra. Una manifestazione di qualunque partito, invece, non riesce a riempire più nemmeno una strada.

Alla luce del dato catastrofico della partecipazione popolare alle elezioni regionali di domenica e lunedì (solo il 40% degli aventi diritto ha espresso il suo voto), ci verrebbe da concludere che la politica ha ormai perso le piazze e pure le urne.

Ma quel voto è venuto a ridosso del nostro Festival più popolare ed osservando Sanremo ci accorgiamo che potrebbe anche non essere così.

A differenza delle urne lombarde e laziali, nella piazza virtuale del Festival appena concluso c’erano collegate quasi 13 milioni di televisioni, aggregando il 66% di tutti i telespettatori italiani ( mentre i numeri assoluti dei televotanti non sembra essere un dato facilmente divulgabile nel regime della “videocrazia”). E’ un dato percepito da ogni donna e uomo comune che la discussione sul probabile vincitore di Sanremo ha tenuto più banco, nel dibattito pubblico, di quella concernente i probabili vincitori delle due regioni più popolose e strategiche di Italia. Possiamo concludere che la partecipazione popolare ad un Festival canoro ha asfaltato la politica? No. Sanremo da un pezzo non è più una gara canora, forse non lo è mai stato, è un indicatore caleidoscopico dello stato politico dell’italianità.

Sbaglia chi contrappone il festival alla politica, non sono più solo canzonette: con l’attenzione puntata su Sanremo c’è, per fortuna, un’Italia che ancora discute e si divide su temi e contenuti, che dibatte e si scalda come non fa il resto dell’anno, come certamente non fa davanti alle scadenze elettorali, quasi come se fosse un corpo solo.

La discussione pubblica su Sanremo 2023 è stata una discussione popolare ricca di elementi squisitamente politici a cui non si assiste da tempo:

1) Politica estera: invitiamo o no un Capo di Stato di un paese aggredito?;

2) Politica interna: esiste o no una deriva culturale di stampo razzista nella attuale società italiana come ci ha detto la Egonu?;

3) Giustizia: è giusto perdonare e far esibire su un palco di quella importanza una cantante che ha commesso da poco un reato?;

4) Educazione e istruzione: è lecito che sulla televisione di Stato Rosa Chemical venga presentato al pubblico giovanile, che la Ferragni indossi un vestito che la fa apparire come se fosse nuda o che il comico Angelo Duro parli apertamente del rapporto tra “puttane e matrimonio”?;

5) Politiche di genere: i monologhi sulle mamme lavoratrici e sulle donne, che per scelte lavorative, vivono una condizione consapevole di non maternità;

6) Politiche giovanili: come deve reagire la comunità adulta con i ragazzi molesti?;

7) Welfare (il ministero che per me ha vinto a Sanremo 2023): l’accoglienza dolce ed inclusiva dei musicisti anziani e dei cantanti in gara che presentano evidenti forme di fragilità.

In filigrana è stata sempre presente, ahinoi, la potente cabina di regia del Ministero dell’Economia e della “Confusione Ecologica”: con 50 milioni di euro di raccolta pubblicitaria (più del 20% dell’anno precedente secondo Il Sole 24 ore) e due sponsor presenti in maniera martellante: il primo promuoveva energie alternative al suono soave degli strumenti di un’orchestra classica ed il secondo organizzava party per centinaia di persone su una piscina riscaldata in una nave di crociera, in pieno inverno.

Sanremo, con tutte le sue ambiguità ed ambivalenze, è rimasto forse l’unico appuntamento di massa in cui gli italiani si incontrano e si dividono su temi che coniugano vita e politica, e dove l’arte, il gioco di provocazione, la musica di sottofondo, accompagnati da una buona intelligenza sociale ed il garbo dei conduttori, consentono al nostro popolo di non dover inseguire chi urla di più dentro ai talk, fino a cambiare canale, ma chi ha saputo gestire meglio una situazione che si è venuta a creare sul palco, davanti ai nostri occhi: un uomo che cade, un ragazzo che cerca la mamma, un anziano che balbetta, due uomini che si baciano, una donna che si commuove…Teoria ed Azione .

Alla fine forse conviene ripensare il rapporto tra leggerezza e politica: non torneremo ad una nuova partecipazione democratica alle urne riducendo al Festival lo spazio politico che oggi occupa, ma imparando da Sanremo a fare politica quotidiana.

Un esempio concreto. Mentre tutti attendevamo, come fosse un superospite, il discorso di un Capo di Stato, a sorpresa arriva dal palco un dolce Tango e milioni di italiani, forse per la prima volta, si “connettono” davvero alla guerra, si commuovono e comprendono cosa significhi per quel popolo essere aggrediti, essere separati e doversi difendere. E alla fine ci ricordiamo che vivere la politica non significa ridursi a fare il tifo (Zelensky si! Zelensky no! Blanco via! Povero Blanco!), ma partecipare al dolore ed alle speranze degli altri, entrarci dentro per riscoprire l’esigenza di camminare ad un passo da loro, impegnarci davvero fino a che la musica non arrivi a ciascuno di coloro che la desiderano.

Ripartiamo dai temi che scaldano e dalle azioni concrete, senza questi (s)partiti la politica formalizzata dei partiti resta comodamente afona, ben felice di gestire il consenso che le arriva da un numero sempre inferiore di votanti.


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