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Cooperazione & Relazioni internazionali

Adozioni internazionali, il sistema ha fallito

Adottare è sempre più difficile, ma nel sistema nessuno accenna un mea culpa. Nessuno introduce cambiamenti sostanziali nel proprio operato. «Siamo a un bivio: continuare a tentare di rianimare un sistema che ha fallito oppure ammettere che l’adozione internazionale oggi deve essere uno strumento completamente integrato in un sistema più ampio di protezione dell’infanzia». L'intervento di Marco Rossin, responsabile adozioni di Avsi

di Marco Rossin

Lo scorso 25 gennaio la Commissione Adozioni Internazionali ha, come di consueto, pubblicato i dati relativi alle adozioni concluse nell’anno 2022 e alle famiglie in attesa di adottare. Si parla di un totale di 565 adozioni concluse e di 2.520 famiglie in attesa (pochissimi giorni fa la ministra Eugenia Roccella ha aggiunto in un question time il dato dei minori entrati per adozione nel 2022, sono 705 contro i 735 del 2021, ndr). Già questo semplice dato permette una visione approssimativa di quanto sia diventato difficile oggi per una famiglia adottare. Anche non considerando le nuove famiglie, che nel fisiologico flusso del processo adottivo si vanno ad aggiungere a quelle in lista di attesa, si può stimare in quasi 5 anni il tempo necessario a una famiglia per accogliere un bambino.

Prendendo in considerazione situazioni specifiche per Paese, o per Ente, la situazione diventa più complessa. Anche evitando le situazioni più drammatiche (Cina, Bielorussia, Federazione russa etc.), sono i Paesi apparentemente minori ad avere situazioni altrettanto allarmanti, dove a fronte di nessuna adozione realizzata nel triennio precedente, si trovano decine di famiglie in attesa.

In uno scenario di questo tipo assistiamo a proclami su un fantomatico “rilancio del sistema” e a programmi di miglioramento ed investimento nel settore che poggiano solitamente su elenchi fantasiosi di fattori che avrebbero condotto alla situazione attuale. Fattori che – guarda caso – riguardano sempre “altri”. Nessuno, a nessun livello, accenna un mea culpa: secondo gli enti autorizzati la responsabilità è dei tribunali, dei servizi sociali, dei paesi esteri; secondo l’apparato pubblico della gestione precedente, della pandemia da Covid-19, della crisi economica, del mondo dell’adozione che è cambiato senza che gli enti si adattassero e così via, in un infinito circolo di responsabilità assegnate agli altri e mai legate al proprio campo d’azione. Naturale conseguenza di questo stile di pensiero è che nessuno introduce cambiamenti sostanziali nel proprio operato, forte del fatto che la causa del calo inesorabile e progressivo starebbe sempre altrove.

In questo circolo vizioso, che perdura ormai da anni, l’adozione sta diventando realmente una missione impossibile per una famiglia che vorrebbe solo accogliere un bambino e, d’altra parte, un’occasione mancata per tanti bambini in stato di abbandono. L’adozione ha visto un calo drastico in tutto il mondo, ma proprio per questo è arrivato il momento di cambiare approccio e punto di vista e di partire da se stessi, dichiarando senza mezzi termini che l’attuale sistema delle adozioni in Italia ha fallito, con responsabilità distribuite a ogni livello.

Dovremmo partire da noi, gli enti autorizzati, ossia l’unico soggetto privato di tutto il processo e anello di giunzione tra un bambino e la sua famiglia. Dobbiamo finalmente dire con chiarezza che siamo troppi (il numero di enti autorizzati è sostanzialmente rimasto invariato negli ultimi dieci anni nonostante le adozioni si siano ridotte di quasi nove decimi); potremmo affermare che l’obiettivo della sopravvivenza individuale ci ha spinti a condotte talvolta superficiali, spesso deprecabili; potremmo sostenere che un servizio di qualità, per i bambini e le famiglie, non è sostenibile economicamente se si regge esclusivamente su ciò che è richiesto alle aspiranti famiglie adottive. Potremmo concludere, schiettamente, che se non ne ripensiamo le fondamenta, l’adozione diventerà un percorso estremamente costoso, elitario e con un carico di fatica estrema che grava solamente sulle aspiranti famiglie adottive.

Nel processo adottivo gli enti sono i soggetti più esposti. A loro è richiesto un lavoro di eccellenza a fronte di una sostenibilità economica quantomeno difficile, ma molto spesso non hanno una struttura tale per garantire ciò che viene loro richiesto. Questa insostenibilità è uno dei maggiori fattori corresponsabili dell’attuale situazione. Partendo da noi ed evidenziando come abbiamo contribuito all’attuale situazione, per estensione gli altri soggetti coinvolti si potrebbero anche sentire legittimati a focalizzarsi sulle proprie di responsabilità.

Oggi ci troviamo di fronte all’ennesimo bivio: continuare ostinatamente a “lavorare per il rilancio” (ovvero, in altri termini, tentare di rianimare un sistema che ha fallito) oppure renderci conto che l’adozione internazionale può tornare ad essere uno strumento utile per ristabilire il diritto di un bambino a una famiglia solamente se completamente integrato, in termini operativi e finanziari, in un sistema più complesso e ampio di protezione dell’infanzia. La presenza di un ente in un determinato Paese non può essere circoscritta esclusivamente a processi di adozione internazionale, ma piuttosto ad un lavoro su più fronti: integrato con la realtà locale, interlocutore con i soggetti istituzionali coinvolti nella cura dell’infanzia del Paese e, soprattutto, capace e consapevole di una lettura del contesto in cui opera.

I cambiamenti, in particolari quelli radicali, sono traumatici e vanno nella direzione opposta a quella più comoda, che è il mantenimento dello status quo. Attuare un processo di questo tipo oggi porterebbe ad una dura selezione degli enti, a una revisione totale dell’attuale sistema e a un cambio radicale di prospettiva. Si tratta di prendere delle decisioni, di compiere delle scelte. E la scelta questa volta sta a noi.

*Marco Rossin è responsabile adozioni di Avsi

Foto di Alessandra Fuccillo per Avsi


L'intervento di Marco Rossin solleciterà certamente molte considerazioni

e aprirà un salutare dibattito.

Chi volesse intervenire può scrivere a s.decarli@vita.it


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