Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Sanità & Ricerca

La malattia mentale? Da lì è nato il mio progetto di vita

Danielle Sassoon, attrice, artista e scrittrice (da poco ha pubblicato il libro "A Beirut non ci sono più cani con VandA Edizioni") ha attraversato un periodo difficile, segnato dalla sofferenza legata al disturbo bipolare. Ora sta meglio, ma il disagio psichico è diventato parte della sua identità e non può più parlare di sé senza tenerne conto

di Veronica Rossi

L’esperienza della malattia mentale segna un prima e un dopo, è uno spartiacque nella vita di una persona. Questo concetto lo ribadisce con forza Danielle Sassoon, attrice, artista e scrittrice che da poco ha pubblicato il suo libro d’esordio, A Beirut non ci sono più cani (VandA Edizioni). L’autrice è passata attraverso un periodo buio, in cui le sue condizioni psichiche le hanno imposto uno stop forzato, ma ora si definisce «miracolata». Anche se adesso sta bene, non può più prescindere dalla malattia quando racconta di sé, perché è diventata parte costituente della sua essenza.

Come avviene il suo contatto con la malattia mentale?

Sono una persona affetta dalla sindrome bipolare, che ha occupato in maniera invalidante un decennio della mia vita. L’esperienza del disturbo psichico, però, ha caratterizzato anche il mio contesto familiare. Mia sorella è gravemente malata, non ha avuto la fortuna di godere della remissione della malattia.

Lei, invece, sta meglio…

Ora sì, ma ho passato degli anni in cui la morte l’ha fatta da padrona, ero in una situazione molto grave. Oggi, guardandomi indietro, posso dire che la malattia è stata in qualche modo l’incubatrice di un grande progetto di vita. Ma il mio sguardo è particolare e privilegiato.

In che senso?

Particolare perché tendo a non parlarne mai come una sfortuna; la malattia è stata un grande insegnamento, un’esperienza di fronte alla quale mi inchino con tutta la mia umiltà. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che posso ragionare così perché sono una privilegiata. Mi è successo un miracolo: un giorno, non per merito ma per fortuna, mi sono svegliata e ho rimesso piede nella mia vita.

E questo cosa le ha insegnato?

Ho deciso di dimostrare la mia gratitudine dedicandomi al volontariato con Progetto Itaca, una fondazione che promuove l’informazione, il sostegno e l’ascolto per le persone con disagi psichici e le loro famiglie. Ero impegnata a rispondere nella linea telefonica di questa realtà, che possono chiamare le persone con problemi psichici quando sono in cerca di consiglio, così come i loro parenti. L’obiettivo del numero verde è indirizzare gli utenti nel mondo vasto e confuso della malattia mentale, supportandoli e ascoltando i loro bisogni.

Di cosa le parlavano le persone che chiamavano la linea d’ascolto?

Portavano tante cose, molta solitudine, soprattutto. Cercavano umanità. La maggior parte di loro non chiamava per essere guarita: erano persone che si erano già assunte in partenza il loro destino carico di fatica. Al corso di formazione ci spiegavano che dovevamo indirizzarli alle strutture competenti se ci avessero chiesto informazioni sulle cure, senza prendere posizione o dare suggerimenti sui farmaci. In tutto il tempo in cui ho fatto volontariato, però, forse due persone mi hanno domandato indirizzi, gli altri telefonavano per sentire una voce, per avere un punto di riferimento. Alcuni ti parlano della loro giornata, ti dicono che hanno fatto le orecchiette, altri ti spiegano la loro visione della vita, altri ancora ti insultano. Ricordo un uomo di 65 anni, che mi diceva parole irripetibili, che poi ho scoperto avere un desiderio: un trenino elettrico.

Tornando alla sua esperienza, ci sono approcci migliori di altri in psichiatria?

Io non ho veri strumenti per poter rispondere. Si tratta di un mondo dove devi avere molta fortuna. Io sono stata in cura da quelli che erano considerati i migliori psichiatri di Milano e mi sono sembrati dei cialtroni, poi sono stata presa in carico da un medico, Michele Cisima, che con solerzia e con pazienza mi ha tirata fuori dalla situazione in cui mi trovavo. Non penso vadano demonizzate le medicine, perché senza di loro non si fa nulla: se lo psichiatra non mi avesse dato in maniera corretta il litio, forse non sarei qua a parlarne. Non si può, però, somministrare un farmaco e basta, bisogna accompagnarlo con un lavoro analitico e di sostegno psicologico. Non è un mal di testa, per cui prendi una pastiglia e sei a posto. C’è bisogno di un approccio umano ma anche delle medicine; il mio medico mi vuole un gran bene, però bisogna prima costruire una base chimica – mi ha dato antipsicotici, antidepressivi e litio – su cui innestare un percorso di amore. Il contesto affettivo è importante, perché è il primo ad andare in frantumi quando c’è un disagio psichico.

In che senso?

Si perdono gli amici, che iniziano anche ad avere paura di te. Oggi io sono frequentabile, sono circondata da affetto, ma cinque anni fa le persone mi evitavano per strada. Diciamo che, col disagio psichico, avviene una grande selezione nelle persone che ti stanno accanto.

Nel suo libro racconta che quando si è ricoverata, la prima reazione è stata un desiderio di fuga…

Spesso chi ha un disagio psichico fa fatica a riconoscerlo, il primo nemico del malato di mente è il malato stesso; io dieci anni fa ho deciso di ricoverarmi perché mi sentivo in pericolo di vita, ma poi – al di là del racconto che faccio, che ha anche delle componenti di ironia – ho desiderato di scappare. C’è ancora un grande stigma, la malattia mentale è circondata da un’aura di riserbo per cui è meglio che non si sappia nulla in giro. La sofferenza psichica riguarda un immaginario talmente cupo e desolante, poco previsto in una società dove tutto deve funzionare alla perfezione, che uno fa fatica ad ammetterla.

C’è una visione negativa, quindi, da parte della società?

La gente perde il lavoro quando dice che ha una malattia mentale, non può parlarne facilmente. Non è come avere il diabete o qualche altra patologia del corpo: quando il disagio riguarda la mente, i mondi interiori che si spalancano sono inquietanti, fanno paura. È un marchio che ti resta addosso: poco tempo fa volevo fare un’assicurazione sulla salute, ma non me l’hanno accettata. Io parlo molto della malattia mentale, ma forse anche questa è una reazione allo stigma, probabilmente è per esorcizzarlo, così come alcune persone scrivono un curriculum finto per nascondere gli anni in cui non riuscivano a lavorare.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA