Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

La marcia che da quaranta anni dice no alla mafia

Quaranta anni dopo il 26 febbraio 1983, data della prima marcia popolare antimafia Bagheria – Casteldaccia, la strada del Vallone sarà quella su cui si snoderà il serpentone di coloro che venerdì 24 febbraio saranno animati dalla voglia di riscatto da una mafia che non è più quella dell'era stragista, ma è ancora presente nel tessuto socio-culturale della nostra società. A partecipare per la prima volta la "Commissione regionale Antimafia"

di Gilda Sciortino

Sarà una marcia anche per la pace, in quanto cade a un anno dall'invasione russa dell'Ucraina, quella che venerdì 24 febbraio vedrà sfilare studenti, associazioni, sindacati, Arcidiocesi e Comuni siciliani (circa 80 le adesioni), dando vita a una mobilitazione trasversale voluta dal “Comitato popolare di lotta contro la mafia a Casteldaccia”, in provincia di Palermo. A promuoverla, tra i tanti, il Centro "Pio La Torre". Sin da quel lontano 26 febbraio del 1983, unisce lungo la strada del Vallone, arteria utilizzata come via di fuga dei killer e dai latitanti mafiosi, nel cosiddetto triangolo della morte – Bagheria, Casteldaccia e Altavilla.

«La marcia nasce dopo l’omicidio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – afferma Padre Francesco Michele Stabile, storico della Chiesa – in un momento in cui scoppia una guerra di mafia feroce; infatti, come comunità ecclesiale, nell’agosto del 1982, pubblichiamo un documento in cui prendiamo una netta posizione. Nel frattempo matura il bisogno di qualcosa di forte, espresso dalla società civile, dalla Chiesa, dal sindacato, dalle scuole, scegliendo di dare vita a questa marcia che il 24 febbraio celebrerà la sua 40sima edizione. È la prima marcia in cui si fa avanti la società civile, a differenza di prima quando le manifestazioni erano solo di partito o a beneficio di gruppi specifici. In questo caso, abbiamo l’insieme di forze sociali, anche ideologicamente diverse, che hanno un unico obiettivo e cioè combattere il nemico comune, la mafia, che stava devastando anche dal punto di vista religioso la coscienza delle persone, generando paura. Bisognava reagire a questa paura, all’intimidazione mafiosa. Il Centro “Pio La Torre” ebbe un ruolo importante insieme a tutte le comunità religiose, ma tutti in effetti presero posizione”.

Nel frattempo, si sono susseguiti gli arresti di Totò Riina, di Bernardo Provenzano e, recentemente, di Matteo Messina Denaro. Come hanno influito, questi eventi, nel territorio, all’interno del quale si svolge la marcia?

«Ci hanno fatto capire che la mafia non è invincibile e che, alla fine, lo Stato può avere la meglio. Mentre Riina e Provenzano si avvalevano di coperture nello stesso territorio, l’unico collegamento di Messina Denaro è costituito dalla donna individuata come sua amante nella vicina Aspra. Gli arresti eccellenti ci lasciano un senso di liberazione e la certezza che il mito di imprendibilità della mafia è crollato. L’aureola di invincibilità non c’è più».

Una marcia che nel tempo si è evoluta, sensibilizzando sempre di più l’opinione pubblica?

«Il territorio si è evoluto, nel senso che non è più quello che era allora e cioè un mattatoio nel quale, per esempio, nel giro di 15 giorni vennero uccise tante persone. Allo stesso tempo, la mafia diventa fenomeno carsico: apparentemente non esiste perché non ci sono gli omicidi eclatanti dell’era stragista, almeno dalle nostre parti, ma non sono pochi i casi di corruzione legati a Cosa Nostra. La vecchia leva della mafia è in carcere e le nuove generazioni cercano di riprendere quota, ma senza grande successo. Ciò non vuol dire che non è più presente all’interno della nostra società, ma senza dubbio non ha più l’incisività di prima».

Padre Stabile, nel suo libro “La chiesa sotto accusa” racconta di un mondo ecclesiale inficiato dall’ingerenza mafiosa. Che tipo di analisi ci porta?

«Il libro non parla di mafia recente, ma dei primi cento anni in cui sembrava che la Chiesa fosse defilata rispetto alla questione mafiosa. Io racconto del fatto che ci sono dei momenti in cui si ha una netta opposizione e distinguo una varietà di posizioni tra un clero municipale, legato alle beghe locali che era il più permeabile al rapporto alla mafia, un clero sociale in difesa delle terra dei contadini, e un clero indifferente alle problematiche sociali che si vivevano. Racconto tutto questo a partire dall’Unificazione d’Italia sino alla strage di Ciaculli, che avviene il 3 giugno del 1963 quando una Giulietta Alfa Romeo imbottita di tritolo e parcheggiata nei pressi dell’abitazione di un parente del boss mafioso Salvatore Greci, esplode facendo sette vittime, tra Carabinieri, Poliziotti e Artificieri».

Strage che rivelò una certa assenza da parte di chi doveva garantire sicurezza, peraltro evidenziata dal Cardinale Ruffini.

«Non possiamo, però, dimenticare uomini come Giuseppe D’Angelo, segretario della Democrazia Cristiana, ma anche Presidente della Regione Siciliana. Fu quello che chiese e ottenne la costituzione della Commissione Parlamentare Antimafia. Una persona pulita – prosegue padre Stabile – che mise in relazione lotta alla mafia e lotta alla corruzione perché aveva una visione più globale dei fenomeni. Sono gli anni in cui si preparano quei tragici avvenimenti che vedono i Corleonesi farsi sentire con un elemento nuovo come quello delle stragi, che c’erano già state ma non di quella portata. Con la mia analisi mi fermo agli anni Sessanta quando il clero, che si rifà al Concilio, prende a cuore i problemi del territorio».

Anni in cui la lotta contro la mafia è forte, anche se a periodo alterni. Che stagione sta vivendo oggi il movimento antimafia?

«Non so se oggi esiste un movimento antimafia, ma posso dire con certezza che c’è una sensibilità diversa. Nell’insieme, nella mentalità collettiva, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e dopo l’omicidio di padre Pino Puglisi, la mafia si è presentata con il marchio di una realtà nefanda, in cui ci sono sempre gruppi di persone fanatiche, ma non ha più la rilevanza culturale, sociale e politica di una volta».

Giovanni Falcone diceva che, essendo un fenomeno, prima o poi la mafia scomparirà. Lo crede anche lei?

«Si perché, se riusciremo a sganciare la politica dai mafiosi, Cosa Nostra diventerà un fenomeno di delinquenza comune. Lo stesso Cardinale Ruffini diceva che era una questione di ordine sociale. In realtà, la mafia ha avuto una collocazione ben specifica grazie all’appoggio delle classi dirigenti, quella che chiamiamo “borghesia mafiosa”. In parte si è visto con Messina Denaro e con chi ha appoggiato la sua latitanza. Parliamo di professionisti disponibili a coprirlo a ogni costo. Dopo la morte di Riina e Provenzano e l’arresto di Messina Denaro possiamo dire che non ci sono più figure così rilevanti di mafiosi. Non so ne arriveranno altri con l’intenzione di sposare questa linea di appoggio. ma la mafia non ha più la forza di prima».

Cosa fare nel concreto, visto che lei stesso ravvisa una certa debolezza nella struttura di Cosa Nostra.

«Dobbiamo assumere un impegno forte con i giovani. Il Centro “Pio La Torre” ha fatto e continua a fare un ottimo lavoro con le scuole superiori”. Io stesso ho partecipato ad alcuni di questi incontri. I ragazzi non sanno nulla, quindi bisogna trovare il modo di sensibilizzarli per evitare che si facciano contagiare dalla mitizzazione di questi fenomeni. L’obiettivo della marcia del 24 febbraio è quello di trasmettere un’eredità che accetti solo chi non domina sugli altri e non usi la violenza. Dobbiamo comunicare ai giovani quell’esperienza culturale che, per me che sono un prete, è anche cristiana e ha aderenza con il Vangelo perché ogni gesto di condivisione e di fraternità è evangelico. Vorrei arrivare anche a questo».