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Quelli di Cutro non siano cadaveri senza nome

Quando il 3 ottobre 2013 più di 360 persone morirono a largo di Lampedusa, un team di medici legali coordinati da Cristina Cattaneo riuscì a fare in modo che alcuni di loro fossero riconosciuti e restituiti alle famiglie. Gli altri corpi furono sepolti solo con un numero sulla bara. Da allora abbiamo imparato molto. Oggi la speranza è che le vittime di Cutro non restino senza identità. «L’Italia sa già come fare. Serve però una banca dati europea che si occupi di tutti gli altri morti nel Mediterraneo», sottolinea Cattaneo

di Sabina Pignataro

Il 3 ottobre 2013, in un naufragio al largo delle coste di Lampedusa, hanno perso la vita 368 migranti. «La metà di loro furono riconosciuti dalle famiglie davanti alle questure. Un centinaio rimase senza identità a lungo – dice a VITA il medico legale Cristina Cattaneo – e solo con il tempo, grazie anche al lavoro del Labanof e del Commissario straordinario per le persone scomparse, che hanno lavorato sui dati raccolti dalla Polizia Scientifica, e si sono messi in contatto con i famigliari, la metà di loro fu identificato e restituito alle famiglie che non avevano mai smesso di cercarli».

Gli altri corpi furono recuperati con un numero sulla bara, e sepolti in diversi cimiteri della Sicilia senza che i parenti potessero mai riconoscerli.
Fu in quella l’occasione, documentata con emozione nel libro Naufraghi senza volto, che il team coordinato da Cristina Cattaneo, riuscì per la prima volta, a dimostrare come l’identificazione dei cadaveri dei naufragi sia non solo possibile, ma anche fondamentale in ossequio alla dignità dei defunti e delle loro famiglie.

Ieri, il Comitato Tre Ottobre, nato l’indomani della strage di Lampedusa del 2013 per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’integrazione, ha scritto al Viminale; ad Antonino Bella, Commissario straordinario per le persone scomparse e alla prefetta di Crotone, Maria Carolina Ippolito, chiedendo che non accada quello che è accaduto dieci anni fa per i due naufragi di Lampedusa dell’ottobre 2013. Nello specifico, il Comitato presieduto da Thareke Brhane, ha chiesto che prima della sepoltura, le salme ricomposte a Crotone possano essere sottoposte al protocollo che prevede appunto il prelievo del Dna e le foto, in modo che le famiglie che nelle prossime settimane si faranno avanti alla ricerca dei propri cari dispersi, possano essere nelle condizioni di effettuare il riconoscimento formale previsto dalla legge per potere eventualmente riavere indietro il corpo.

Al momento sono 67 le vittime accertate, tra cui una ventina di bambini. Ieri il mare aveva restituito altri due corpi senza vita: uno dei due era il cadavere di un bambino di pochi anni, poco prima era stato trovato quello di un uomo adulto. Trenta invece ancora dispersi, gente inghiottita, e trascinata chissà dove. Questa mattina il presidente Sergio Mattarella è arrivato in ospedale a Crotone e ha stretto le mani ai 16 migranti ricoverati, sei dei quali sono minorenni.

Dare un nome: l'Italia sa come fare

«L’Italia sa come fare», sottolinea Cattaneo. «In occasione del disastro del 18 aprile 2015 l’equipe del Labanof dell'Università di Milano insieme ad altre 12 Università d'Italia e alla Polizia Scientifica, sempre per conto del Commissario Straordinario per le persone Scomparse, effettuò le analisi autoptiche, la catalogazione dei vestiti e degli oggetti ritrovati. Ancora oggi stanno andando avanti le operazioni di identificazione. Ne nacque uno studio pilota volto alla individuazione di un modus operandi efficace ed efficiente per l’identificazione dei migranti deceduti». (Qui le info sullo studio pilota Lampedusa e sullo studio pilota Catania-Melilli)

Il problema, osserva con forza Cattaneo, «è che il tema dell’identità delle vittime torna ad essere centrale solo in presenza di stragi nel Mediterraneo che ricevono grande copertura mediatica come quella di Cutro. Per poi finire nei cassetti impolverati subito dopo. Probabilmente si scontra con un sentimento di indifferenza generale nei confronti di morti dalla pelle e dalla cultura diverse, di morti di altre realtà. Morti che non vengono considerati di nessuno e che finiscono negli elenchi burocratici. Mai nessuna attenzione sul fatto che chi muore in mare è un essere umano con un passato, un presente e delle speranze come futuro. Non ha un nome, un’identità e, molto spesso, nemmeno una sepoltura».

L’Italia sa come fare. Il problema è che il tema dell’identità delle vittime torna ad essere centrale solo in presenza di stragi nel Mediterraneo che ricevono grande copertura mediatica come quella di Cutro. Per finire nei cassetti impolverati subito dopo.

Cristina Cattaneo

Ad oggi non c’è un sistema integrato per il conteggio delle morti, e molti di coloro che hanno perso la vita in mare non verranno mai portati a riva o se ci arriveranno probabilmente saranno depositati senza nome e senza funerale in un cimitero in Italia meridionale o in Grecia.
«Io invece non mi stancherò mai di sottolineare l’urgenza di creare una banca dati europea del DNA e di avviare un progetto di collaborazione europeo affinché venga riconosciuto il Diritto all’Identificazione delle migliaia di cadaveri tumulati senza nome nei cimiteri europei. L’Italia ha un modello che può essere esteso a tutti i ventisette Stati Membri».

Perché è importante dare un nome

Il problema non è di poco conto, non solo perché stiamo parlando di esseri umani che hanno perso la loro vita, ma anche a causa delle famiglie e delle persone che continuano ad aspettare una chiusura emotiva che non arriva. «La mancata identificazione ha effetti di portata enorme non solo sul benessere psicologico dei familiari, ma anche ineludibili ripercussioni dal punto di vista burocratico», spiega Cattaneo.

«Prima di tutto è importante compiere ogni sforzo possibile per identificare questi cadaveri in ossequio alla dignità dei defunti e delle loro famiglie. Un diritto sancito e tutelato da plurimi contesti normativi».
Inoltre, aggiunge la medica, «in assenza di identificazione certa non può essere prodotto il certificato di morte, un documento fondamentale per aspetti civilistici ed amministrativi. Tra questi, l’impossibilità per un orfano di fruire della possibilità di essere ricongiunto con i familiari ancora in vita».
Il terzo aspetto riguarda il Diritto alla Salute, ed in particolare la salute mentale dei familiari in vita. «Come ormai ben noto a livello scientifico, l’impossibilità di avere la certezza che il prossimo congiunto sia effettivamente deceduto espone ad una condizione di limbo, definita “Ambigous Loss” (Perdita Ambigua). Questa condizione può essere prodromica allo sviluppo di quadri psicopatologici conclamati, tra i quali Sindromi Depressive».
In ultimo, in assenza di identificazione è preclusa ogni possibilità di ottenere giustizia per eventuali reati commessi ai danni del migrante, così come gli eventuali ristori economici di natura risarcitoria o indennitaria.

Foto in apertura, Cristina Cattaneo, medico e antropologo, professore ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano, all'inaugurazione del Musa, il nuovo 'museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani', della Statale


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