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La fabbrica nella quale dita piccole e sottili lavoravano il tabacco

Una storia tutta al femminile, quella raccontata da Francesca Maccani nel suo libro “Le donne dell’Acquasanta”, il cui scenario è la Manifattura Tabacchi di Palermo di fine Ottocento, dove le donne lavoravano il tabacco trasformandolo in sigari per chi se li poteva permettere. Una storia che racconta di donne che subiscono i padroni, ma anche di donne che, per avere alzato la testa, pagavano di persona il prezzo della loro ribellione. Un tema, quello della violenza, introdotto ricordando che solo nel 1996 lo stupro da reato "contro la morale" sarà riconosciuto in Italia come un reato "contro la persona"

di Gilda Sciortino

Era una fabbrica di un’industria tessile quella in cui, l’8 marzo del 1911, 134 operaie rimasero uccise nell’incendio che scoppiò perché i “padroni” avevano sbarrato le uscite per stroncare la protesta in atto per rivendicare le condizioni in cui erano costrette a lavorare.

Ed è pure una fabbrica quella in cui Francesca Maccani ambienta il suo romanzo “Le donne dell’Acquasanta”, una storia tutta palermitana che ha come cornice la Manifattura Tabacchi, esempio di archeologia industriale sorta verso la fine dell’800 negli edifici che avevano ospitato il Lazzaretto della città di Palermo, tra gli attuali Cantieri Navali e il Cimitero degli Inglesi, sulla cui costa spicca uno dei porticcioli di Palermo, appunto l’Acquasanta. Nel tempo, però, cambia destinazione d’uso e si trasforma in Manifattura Tabacchi per la ricezione del tabacco e la fabbricazione di sigari e sigarette.

Una storia tutta palermitana, dicevamo, ma anche e soprattutto tutta al femminile, nella quale le giovani donne erano costrette a lavorare tenendo i figli neonati legati dietro la schiena, mentre le loro sottili dita arrotolavano le foglie di tabacco che sarebbero diventate sigari per i signorotti che non si chiedevano mai chi confezionasse l’oggetto di un vizio che affermava il loro status.

Uno spaccato di vita, se vogliamo anche abbastanza attuale, nel quale la fantasia dell’autrice vola libera nella costruzione e definizione di personaggi che, anche se non con i nomi che dà loro, sono lo specchio di un’epoca nella quale le donne non hanno alcuna voce in capitolo. Donne sfruttate sino a che non rimane quasi più niente di loro, alle quali hanno sottratto anche la voglia di sognare una vita normale, quotidiana, fatta di piccole cose, di affetti sinceri e duraturi nel tempo.

Donne costrette anche a rinunciare all’essere madri, come Mena che darà in adozione il proprio bambino, nato da una fugace relazione con uno dei signorotti per il quale è stata solo un capriccio. Accanto a lei nessuno, neanche la madre, che non si opporrà, anzi favorirà il “darsi” della figlia a colui che non riconoscerà il figlio, vittima pure lei di un sistema che della donna fa carne da macello. Chi, però, riesce ad alzare la testa e a rivendicare il diritto delle donne a essere tutelate e, per esempio, ottenere uno spazio all’interno della fabbrica, il cosiddetto “baliatico” nel quale lasciare i propri bambini mentre le mamme lavorano, raggiungerà l’obiettivo ma pagherà personalmente lo scotto della sua ribellione.

Caleidoscopico il mosaico di personalità femminili che Francesca Maccani ci propone, facendo immedesimare il lettore nella figura che più gli si avvicina o della quale si innamora. Si, perché è proprio impossibile non innamorarsi di queste donne, pensando quasi per un momento di voler fare qualcosa per tirarle fuori da una vita che non meritavano.

«Volevo una storia che fosse realistica – spiega l’autrice – molto vicina a una possibile verità storica. Io faccio l’insegnante e lavoro in un ambiente prettamente femminile, quindi bene o male le tipologie di persone sono le stesse: c’è la donna energica, quella combattiva, l’altra che non digerisce le ingiustizie, la donna che dice “va bene, lasciamo stare”. Diverse caratteristiche caratteriali che, indipendentemente da come reagiscono alla realtà che le circonda, volevo avessero una loro forza per non farle sembrare una massa indistinta. Gli uomini ci sono, ma sono tutti molto tristi, lo specchio della società maschilista del tempo. Consideriamo, poi, che per un Paese post Unità d'Italia le classi più povere vengono affamate dalla classe dirigente. Un periodo di grande miseria nel quale, paradossalmente le “mie donne” erano privilegiate perché tra le poche che avevano assicurato un minimo di salario. Ovviamente, venivano trattate malissimo e dovevano subire, mettendo al mondo figli con un destino segnato».

A un certo punto entra in campo il tema della violenza…

«L'abuso era all'ordine del giorno, i padroni si sceglievano le donne ne facevano quel che volevano. Le donne non potevano dire nulla, ribellarsi, diversamente perdevano il lavoro. Purtroppo è un tema ricorrente anche oggi perché non è assolutamente raro che il capo ti chieda la prestazione per concederti l'avanzamento di carriera o per farti conservare il posto. Ovviamente oggi più denunce e maggiori tutele, ma le dinamiche sono le stesse. Ci sono anche donne costrette a sposare chi ha abusato di loro. Un esempio su tutte di donna che rompe gli schemi è Franca Viola, la prima che ha interrotto questo costume barbaro».

È, infatti, grazie a Franca Viola, a sedici anni dal suo rapimento, che il 5 agosto 1981 la norma invocata a propria discolpa dall'aggressore, l'articolo 544 del codice penale, sarà abrogata con la legge 442. Così, nel 1996, lo stupro da reato "contro la morale" sarà riconosciuto in Italia come un reato “contro la persona”.

Qual era il messaggio che volevi lanciare con questo libro?

«Quello legato al lavoro femminile e alla grandissima difficoltà per le donne di conciliare lavoro e famiglia, dovendo fare i salti mortali. Siamo sempre noi a rinunciare ad avanzamenti di carriera, promozioni o quant’altro. Sembra scontato che la donna sia sempre quella che si deve sacrificare e questo è molto frustrante, fermo restando le eccezioni di donne che preferiscono la carriera alla famiglia. Queste, poi, vengono additate proprio dalle altre donne, prima ancora che dagli altri uomini, come quelle che non vogliono accudire i figli. Se, quindi, questi ultimi non sono perfetti, la colpa è della donna che ha voluto seguire la propria carriera. Io, per esempio, per poter scrivere questo libro ho dovuto fare le nottate, rubare molti momenti alla mia famiglia, così mi sento in colpa, La solitudine che accompagna le donne nelle loro scelte è la stessa che distrugge Mena, lasciata da sola a fare una scelta che segnerà la sua vita. Purtroppo lei aveva una madre disfunzionale, che la spingerà alla prostituzione, quindi il suo è un destino segnato. La nostra è una società in cui l'uomo può tutto, gli viene giustificato e consentito ogni cosa, mentre alle donne non viene perdonato nulla. Non voglio sembrare troppo estremista, ma i maschi sono legittimati a stare lontano dai figli, dalla casa, dalla famiglia; nessuno condannerebbe un padre perché ha seguito la carriera. Noi, invece, siamo sempre sottoposte al giudizio altrui: se ci vestiamo bene, dedichiamo troppo tempo a noi stesse; se ci vestiamo male, siamo trascurate; se lavoriamo poco, siamo raccomandate; se lavoriamo molto, non pensiamo al marito e ai figli».

In quale di queste figure ti ritrovi?

«Ovviamente in Franca, del resto si chiama come me. Ho voluto metterci un lato del mio carattere che è quello del non tollerare le ingiustizie anche quando quella cosa non mi tocca. Mi sento molto vicina a lei come Antigone, simbolo della lotta e della determinazione, nel combattere contro tutto quello che viene imposto, sia da parte degli uomini sia delle donne».