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Dieci anni con Francesco, il Papa del fare sociale

Dalla scelta del nome "Francesco" alla condanna della guerra. Il vaticanista Lucio Brunelli - in occasione del decennale dall'elezione di Jorge Bergoglio al soglio pontificio del 13 marzo 2013 - ha curato sul numero di VITA magazine di marzo un'antologia dei momenti più significativi di dieci anni che resteranno nella storia

di Lucio Brunelli

Mancava una settimana o poco più all'inizio della primavera; quella sera del 13 marzo 2013 il cielo era piovigginoso ma l’aria già mite. Quando il fumo della vecchia stufa della Sistina finì di far tribolare noi giornalisti virando decisamente verso il bianco tutti corremmo verso le postazioni allestite in fondo a piazza san Pietro, pronti per le edizioni straordinarie del tg. Di lì a poco le grandi vetrate della Loggia delle benedizioni si aprirono e il cardinale protodiacono, Jean-Louis Tauran, i segni del Parkinson scolpiti nel suo corpo, diede l'annuncio dell'habemus papam. Georgium Marium… bastò, a chi lo conosceva, udire il nome di battesimo in latino, per capire che il prescelto era proprio lui, Jorge Mario Bergoglio…

Fu il tono di voce la prima cosa a colpire. La familiarità inattesa di quel «Buona sera» pronunciato come se fosse la cosa più normale del mondo, per il 266° successore dell’apostolo Pietro, salutare a quel modo la folla dei fedeli radunata all’interno del colonnato del Bernini e quella più vasta che, incuriosita, da casa stava guardando la tv. A colpire era il tono di voce, che non sapeva di sacrestia. E il suo sguardo, lieto, di un “peccatore guardato dal Signore”. Perché lui poteva sentirsi un po’ furbo e nello stesso tempo un po’ ingenuo ma, come avrebbe raccontato a padre Antonio Spadaro nella sua prima intervista, la definizione più vera restava quella di un uomo cosciente delle sue fragilità, un peccatore («e non è un modo di dire, un genere letterario») che a un certo punto della sua vita aveva sperimentato su di sé lo sguardo amorevole di Cristo.

Conoscendolo bene ero sicuro che molte altre sarebbero state le sorprese del pontificato; il rifiuto della croce pettorale d’oro, la scelta di non abitare nel palazzo apostolico, le prime uscite informali dal Vaticano erano solo le prime avvisaglie. Sorprese tutte ruotanti attorno a un perno essenziale. Per grazia di Dio e per quello che umanamente è concesso in questo mondo, un testimone di Colui che, guardandolo, lo aveva "misericordiato" (uno dei suoi magnifici neologismi). Lo stesso sguardo misterioso che attraversa tutti i Vangeli: ribellione verso la doppiezza dei falsi moralisti, predilezione innata verso i più deboli e malfamati. «Ho conosciuto dei religiosi cattolici: e devo dire che mai lo spirito di Cristo mi è parso così vivido e dolce; un trapianto splendidamente riuscito», così Pier Paolo Pasolini scriveva di madre Teresa di Calcutta, incontrata nel suo lebbrosario in India nel 1961, quando la religiosa era ancora sconosciuta in Occidente. Francesco non è Teresa, la santità della suora albanese è imparagonabile, ma il Papa crede che quel “trapianto” di Cristo sia l’ideale: il miracolo (perché di miracolo si tratta) che ogni cristiano dovrebbe chiedere per la propria vita. Non si può che partire da qui, da questo cuore e da questa intenzione, volendo raccontare la trama sociale di questo pontificato.

«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri». Era un sabato mattina, tre giorni appena dopo l’elezione, il nuovo Vescovo di Roma mise da parte i fogli del discorso preparato e a braccio cominciò a raccontare ai giornalisti venuti a Roma per seguire il conclave, come era nata la scelta del nome, Francesco. «Non si dimentichi dei poveri», gli aveva sussurrato il suo amico e vicino di banco nella Sistina, il brasiliano Claudio Hummes, mentre lo scrutinio dei voti continuava ma la soglia dei voti necessari all’elezione era già stata raggiunta.

Non aveva parlato solo di una Chiesa dalla parte dei poveri. Ma di una “Chiesa povera”. In queste parole sentimmo risuonare l’eco della esperienza dei preti argentini delle “villas miseria”, le baraccopoli alla periferia di Buenos Aires: la condivisione della vita reale della gente e non i bei proclami della militanza rivoluzionaria come stile di una testimonianza cristiana fra gli emarginati. Condivisione che significava vivere con loro, in povertà, ed ascoltare i loro bisogni senza la pretesa di conoscerli a priori. Racconta padre Pepe che ad esempio lui, che veniva da una formazione più “impegnata” fu sorpreso nello scoprire che la prima richiesta che gli rivolgevano gli abitanti delle baraccopoli era quella di fare il prete, di fare le messe, i battesimi e le processioni con i santi e la Virgen più venerati nei loro paesi di provenienza. Ciò non significava rinunciare alle battaglie sociali e politiche, che certo andavano fatte, per l’acqua potabile, per la corrente elettrica, in luoghi dove mancava tutto. Era piuttosto la scoperta di un metodo diverso, non ideologico, di stare nelle situazioni.

Scelte di una radicalità evangelica, quelle di padre Pepe e dei suoi amici, come il giornalista italiano Alver Metalli che nel 2014 ha lasciato la sua bella casa in un quartiere residenziale di Buenos Aires per trasferirsi ne “La Carcova”, la bidonville dove sta tuttora vivendo la sua vocazione cristiana. Naturalmente sono scelte che non tutti possono compiere e sarebbe una pretesa sbagliata richiederlo. A tutti i cristiani Francesco indica però il metodo dello starci, del toccare con le proprie mani…

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Nella foto di apertura. Roma, 13 novembre 2022, Giornata Mondiale dei Poveri: Francesco partecipa al pranzo per i poveri organizzato in aula Paolo VI


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