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Non solo psicologi: come si risponde al malessere di una generazione?

Sono in partenza i 34 progetti selezionati da Fondazione Cariplo con il bando Attenta-Mente, per rispondere al disagio degli adolescenti: coinvolgeranno 37mila minori. Katarina Wahlberg, programme officer: «Abbiamo scelto di potenziare il sistema delle risposte di sostegno e cura a ragazzi e famiglie che sono già in forte sofferenza, ma di farlo con in testa tre leve: educativa, sociale e sanitaria»

di Sara De Carli

Una dotazione praticamente raddoppiata rispetto al previsto, da 2,5 a 5,2 milioni di euro. Venti milioni di euro chiesti complessivamente dai 144 progetti inviati, che coinvolgevano 1.233 organizzazioni: enti di Terzo settore, aziende sociosanitarie territoriali-Asst con i loro servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, scuole, parrocchie, università, enti pubblici territoriali. Un nuovo bando in arrivo in primavera, da altri 3,5 milioni di euro. Sono i numeri mossi dal bando Attenta-mente di Fondazione Cariplo, dedicato a rispondere al crescente malessere emotivo e psicologico espresso dai ragazzi. A fine 2022 sono stati resi noti i 34 progetti selezionati e finanziati, in partenza in queste settimane in tutta la Lombardia e nel Verbanio Cusio-Ossola. I progetti coinvolgono 440 organizzazioni e raggiungeranno circa 37mila beneficiari minori e 7mila adulti. Un bando nato perché «il picco di sofferenza che si è manifestato in fase pandemica è preoccupante, così come il quadro che emerge dai trend storici. Appare ancora di più un dovere quello di prendersi cura del benessere dei bambini e dei ragazzi e permettere loro di coltivare desideri, talenti, potenzialità, per il pieno sviluppo dei singoli e per non perdere il contributo che possono dare alla resilienza e vitalità dei territori in cui vivono. Dal punto di vista demografico, sono e saranno sempre più una minoranza: non possono non essere una priorità», spiega Monica Testori, membro Commissione Centrale di Beneficenza di Fondazione Cariplo e membro della Sottocommissione Servizi alla persona.

La scelta di più che raddoppiare le risorse viene dal fatto che «dopo un’attenta valutazione di merito, ci siamo accorti che erano pervenuti molti progetti promettenti, ben oltre le previsioni e la dotazione iniziale, che meritavano fiducia», prosegue Testori. «Con 2,5 milioni di euro avremmo sostenuto i primi 15 progetti, con 5,2 ne abbiamo aggiunti 19! Non potevamo permetterci di lasciare in stand by queste progettualità proprio perché il bando partiva da un’urgenza: dare una risposta tempestiva a più ragazzi e bambini possibile. Dove si fa fatica ad articolare un intervento credibile e di senso bisogna accompagnare e pazientare, ma quando c’è capacità progettuale, bisogna cercare tutte le risorse perché avvenga la “messa a terra” e raggiunga in tempi brevi la comunità, attivando risposte concrete ma anche una riflessione culturale». Da qui anche la scelta di pubblicare un secondo bando: «Perché c’è ancora tanto disagio che non trova risposta e perché siamo ancora in una fase molto emersiva, di esplorazione e comprensione del fenomeno; il bando ha nominato e illuminato un tema che è diventato riconoscibile, evidente a tanti, anche a chi ha faticato a formularlo. Lo strumento del bando è una cornice che incentiva-legittima a mettere a fuoco la problematica, a scandagliarla e a riconquistare capacità analitica e progettuale».

Non potevamo permetterci di lasciare in stand by queste progettualità proprio perché il bando partiva da un’urgenza: dare una risposta tempestiva a più ragazzi e bambini possibile. Dove si fa fatica ad articolare un intervento credibile e di senso bisogna accompagnare e pazientare, ma quando c’è capacità progettuale, bisogna cercare tutte le risorse perché avvenga la “messa a terra” e raggiunga in tempi brevi la comunità, attivando risposte concrete ma anche una riflessione culturale

Monica Testori, membro Commissione Centrale di Beneficenza di Fondazione Cariplo

Ma quale risposta c’è, in queste proposte, al malessere dei ragazzi? Possiamo davvero pensare che la risposta siano ore, tante ore, di terapia? E se non è così, quale visione e approccio ha voluto sollecitare Fondazione Cariplo con il suo bando? Qual è l’innovazione a cui sfida il Terzo settore? Ne abbiamo parlato con Katarina Wahlberg, programme officer presso Fondazione Cariplo, sempre nell'Area Servizi alla Persona.

Come nasce il bando Attenta-mente?

Fondazione Cariplo vuole essere un’antenna attenta a recepire quel che le comunità segnalano come problema, per dare con i propri bandi una cornice entro cui i territori possano sviluppare conoscenza dei fenomeni e maggior capacità di risposta. Già a gennaio 2021 erano arrivate segnalazioni forti relative all’aumento degli accessi ai Pronto soccorsi e ai servizi di neuropsichiatria infantile, che ci hanno interrogato. La sanità storicamente non è un’area su cui siamo operativi come Fondazione, ma la domanda di fondo era troppo forte. Nelle audizioni e nelle interlocuzioni però, più cercavamo di capire quale fosse il bisogno e più il perimetro si allargava. Alla fine abbiamo scelto di provare a potenziare il sistema delle risposte di sostegno e cura a ragazzi e famiglie che sono già in forte sofferenza, ma di farlo con in testa tre leve: quella educativa, sociale e sanitaria. Anche qui uscendo dalla nostra “comfort zone”, perché solitamente Cariplo lavora più sul fronte promozionale che sul riparativo. In questo lungo ascolto fra l’altro si è un po’ ridimensionato quel nesso causale che ci sembrava legare pandemia e disagio: ci siamo convinti che la pandemia ha rivelato un malessere che c’era da tempo e che da tempo era in crescita.

Le carenze di risorse nel comparto pubblico – posti letto, personale, presidi territoriali – sono note. In cosa può contribuire, anche innovando, il Terzo settore? O “semplicemente” si vuole mettere una toppa al pubblico che non ce la fa?

La neuropsichiatria lamenta carenze da oltre un decennio, è vero. No, il bando non cerca di supplire o sostituire l'intervento pubblico ma prova a capire se il Terzo settore, sia nelle sue componenti più specialistiche (perché anche il Terzo settore ha servizi dedicati in ambito psicologico e neuropsichiatrico) sia nelle componenti educative, sociali, animative… possa mettersi a disposizione.

Per fare cosa?

Da un lato per intercettare precocemente le situazioni, che invece quando arrivano all’ambito sanitario sono già molto compromesse. Dall’altro per creare una rete che sul territorio accolga e sostenga il ragazzo e la famiglia, una rete complementare alla risposta terapeutica. Sono queste le prime cose che abbiamo chiesto di fare. Nella fase di ascolto per esempio è emersa la difficoltà di dialogo tra servizi e agenzie (scuola, NPIA, servizi del Ts): tutti si dichiarano in affanno, tutti dichiarano di aver bisogno dell’altra parte, ma tutti sono molto in difficoltà a trovare il tempo e le risorse per farlo: da qui la nostra insistenza sì sui servizi da erogare, ma anche sulle reti da costruire o consolidare.

Immaginavate di ricevere proposte per otto/nove volte le risorse che avevate messo a budget?

Avevamo intuito le dimensioni del bisogno, ma non avevamo così chiaro che ci fosse tanta competenza sul territorio e tanta capacità di mettersi in rete. Per esempio non eravamo sicuri che le neuropsichiatrie infantili si sarebbero messe in gioco e invece tantissime Asst hanno firmato protocolli o sono entrate in un partenariato di progetto. Anche la risposta delle scuole è stata positiva.

Nella fase di ascolto è emersa la difficoltà di dialogo tra servizi e agenzie (scuola, NPIA, servizi del Ts): tutti si dichiarano in affanno, tutti dichiarano di aver bisogno dell’altra parte, ma tutti sono molto in difficoltà a trovare il tempo e le risorse per farlo: da qui la nostra insistenza sì sui servizi da erogare, ma anche sulle reti da costruire o consolidare.

Katarina Wahlberg, programme officer di Fondazione Cariplo

Che azioni hanno proposto i progetti? Su quali disagi intendono lavorare? Con quali attori?

I progetti hanno lavorato sia sulle forme più sommerse del disagio, fuori dal radar dei servizi, sia su quelle conclamate, nelle varie fasi. Ci sono tutte le problematiche di internalizzazione e di attacco al corpo come autolesionismo, tentato suicidio, iperutilizzo di internet ma anche quei campanelli d’allarme che sono il ritiro scolastico, la fobia scolare, il ritiro sociale, le difficoltà di interazione. Meno presenti al momento – ma spero nel secondo bando ci saranno di più – i disturbi del comportamento alimentare e tutti quei malesseri complessi che hanno a che fare con aggressività e regolazione emotiva, che anche sulla stampa sono più ripresi perché disturbano di più: risse, vandalismo, violenza… Poi ci sono i disturbi emotivi comuni: ansia, depressione, attacchi di panico, disturbi del sonno che sono molto sottovalutati e poco presi in carico. Quanto alle platee, sono due: un target più generalista, per esempio nelle scuole o nelle attività pomeridiane per esempio sportive, su cui si farà lavoro di prossimità, emersione, prima risposta, lotta allo stigma e un target già in cura, già seguito dai servizi, oppure – ed è molto interessante – un lavoro con le persone in lista d’attesa. Il Terzo settore ha provato a interrogarsi se quel tempo di attesa può essere riempito di senso e utilizzato per ridurre il rischio di solitudine e isolamento e rinuncia, perché nell’attesa rischiamo di perdere la richiesta di aiuto.

Come si realizza l’intercettazione precoce?

Ci si proverà con strumenti di natura digitale: app, numeri verdi, canali whatsapp, profili instagram, tutte modalità per provare a sintonizzarsi con loro e per facilitare la possibilità di “alzare la mano” e chiedere aiuto. L’altra strada è nei servizi informali, quotidiani, nel classico “spazio compiti” o nei luoghi di promozione della socialità: con modalità e professionalità di un certo tipo si sfruttano quelli spazi e quei tempi per capire se c’è un’altra problematica o bisogno.

Un target con cui i progetti lavoreranno sono i ragazzi in lista d’attesa. Il Terzo settore ha provato a interrogarsi se quel tempo di attesa può essere riempito di senso e utilizzato per ridurre il rischio di solitudine e isolamento e rinuncia, perché nell’attesa rischiamo di perdere la richiesta di aiuto.

Katarina Wahlberg, programme officer di Fondazione Cariplo.

Rispetto ai percorsi di cura?

I progetti non sono tesi a creare servizi fisici, muri entro cui avviare risposte: svilupperanno per esempio delle équipe multidisciplinari, mobili, flessibili, che vanno a domicilio, sul territorio, in grado di raccordarsi con le risposte sanitarie e con il servizio competente. Tutti i progetti fanno un investimento molto grosso sulla formazione e la sensibilizzazione degli adulti di riferimento – genitori, insegnanti, pediatri, medici di base, allenatori – per restituire al territorio una competenza su quali sono i segnali, le prime strategie di risposta, a chi si può chiedere aiuto.. Andiamo a capacitare le figure che passano più ore con i ragazzi perché se la scuola e la famiglia sono più attrezzate si moltiplicano le possibilità di influenzare positivamente il percorso.

Pensando ai 34 progetti che avete selezionato, qual è innovazione che introducono? La risposta al disagio è finanziare più ore di terapia, che venga dal pubblico o dal privato sociale o – tramite il bando – si spinge per costruire delle risposte più composite e innovative?

Il bando non ha stressato molto sull’innovazione, perché non arriva nel deserto e il territorio di riferimento di Fondazione è ricco e propositivo in termini di attori, servizi e sperimentazioni. Abbiamo suggerito di lavorare sull’esplorazione degli strumenti digitali, visto che la pandemia ci ha permesso di vedere quando il Terzo settore può fare di più e meglio in questo ambito: soprattutto per chi è fuori dai radar (penso in particolare ai ragazzi in ritiro sociale) questi sono gli unici strumenti di aggancio, non sostituiscono il lavoro in presenza ma certamente arricchiscono la “cassetta degli attrezzi”. Quanto al processo, il bando ha lavorato sul sostenere processi trasformativi nel rapporto tra gli enti. L’innovazione vera sarebbe smettere di gestire in autonomia, frammentando, questi percorsi – i servizi da un lato, il Terzo settore dall’altro – dandosi invece strumenti, dispositivi e intenzionalità per lavorare insieme. Queste nuove équipe mobili, interdisciplinari e interorganizzative, flessibili sono un esempio di una via possibile. L’innovazione sta nel rapporto, nelle comunità operative che lavorano quotidianamente accanto. Per esempio speriamo che le Asst, su cui gravitano più progettualità, facciano un tavolo unico e un unico protocollo per tutti i progetti, altrimenti le famiglie avrebbero servizi diversi a seconda del punto da cui accedono. Rispetto al Terzo settore, abbiamo fortemente invitato a non stare nella loro progettualità ma a capire quali altri progetti si muovono sul territorio, rispetto ai beneficiari e rispetto al sistema di rete. Queste sono cose che dal punto di vista della narrazione sono difficilissime da trasmettere, ma che hanno un impatto molto forte sulla vita delle persone. È questo quello che manca.

L’innovazione vera sarebbe smettere di gestire in autonomia, frammentando, questi percorsi – i servizi da un lato, il Terzo settore dall’altro – dandosi invece strumenti, dispositivi e intenzionalità per lavorare insieme. Le nuove équipe mobili, interdisciplinari e interorganizzative, flessibili che nasceranno sono l'esempio di una via possibile.

Katarina Wahlberg, programme officer di Fondazione Cariplo.

Un’ultima domanda è sul protagonismo dei ragazzi e sul ruolo attivo che loro stessi hanno. Altrimenti il rischio è davvero di una narrazione che dipinge una generazione di ragazzi depressi, fragili, disagiati, senza risorse…

Noi abbiamo provato a mettere nel bando il fatto che gli interventi dovessero essere costruiti con i ragazzi e non solo per i ragazzi. Abbiamo chiesto ascolto ed engagement, che non sono scontati. Tante volte ci troviamo con dei progetti bellissimi, che sulla carta sono perfetti ma poi in fase di implementazione vediamo che i ragazzi allo sportello non arrivano, il numero verde non lo chiamano… È importante provare a dialogare con loro per aiutarli ad alzare la mano e avanzare una richiesta di aiuto. Tantissimi progetti insisteranno sul gruppo di pari – non per caricare su un ragazzo la responsabilità della segnalazione e dell’invio – ma perché siano i ragazzi coinvolti nella promozione delle attività del progetto, nel predisporre i materiali di comunicazione, nel capire come è meglio parlarne. L’altro aspetto che abbiamo tenuto alto è ricordarsi che parliamo sì di ragazzi con uno o più disagi, ma che nessun ragazzo è solo quel disagio. Abbiamo chiesto al Terzo settore di lavorare per costruire con i ragazzi una mappa di talenti, di risorse. Quello avviene solo se esci dalla logica prestazionale e crei dei setting di tipo diverso, legati anche al fare, alla capacità di essere protagonisti. Far riscoprire un desiderio ‘vitale’, una curiosità, un interesse, un talento… e su quello fare leva per uscire dal disagio.

Foto Unsplash


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