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Education & Scuola

La sfida del secolo? Una scuola senza diseguaglianze

Quarantasette giovani hanno già accolto la provocazione: due anni di insegnamento, nelle scuole più svantaggiate d'Italia, per provare a cambiare il sistema educativo d'Italia. Non si tratta "solo" di essere bravi insegnanti, ma di voler generare impatto sociale, cambiare la situazione per cui oggi a scuola le diseguaglianze pesano troppo. La storia e il sogno di Teach for Italy in un'intervista al suo direttore generale, Andrea Pastorelli

di Sara De Carli

Due anni di insegnamento, dedicati al Paese. Mettendo le competenze, l’entusiasmo e soprattutto la voglia di cambiare il mondo e di lottare contro le ingiustizie e le diseguaglianze al servizio della scuola pubblica. Che significa al servizio dei bambini e dei ragazzi di oggi ma anche di quelli di domani. Per generare un impatto sistemico che certo comincia con il migliorare i percorsi scolastici degli alunni di oggi, ma che punta contemporaneamente a ridisegnare l’ecosistema scuola, contribuendo a superare quei problemi che da troppo tempo il nostro ecosistema educativo vive, quelli per cui il 12,5% dei ragazzi italiani non finisce le scuole superiori, per cui le condizioni economiche e sociali della famiglia ancora influenzano così pesantemente il successo scolastico dei figli, per cui la scuola oggi in Italia non è più un ascensore sociale.

Insegnare per l’Italia. È questa la sfida di Teach for Italy: attrarre giovani talenti verso l’insegnamento, portarli nelle scuole pubbliche più svantaggiate d’Italia, quelle con maggiori tassi di abbandono scolastico, dispersione, povertà educativa. La loro presenza nella scuola vuole essere innanzitutto un’azione di cambiamento, di contrasto delle diseguaglianze educative, di impatto sociale. A guidare Teach for Italy – un ente di Terzo settore nato nel 2019 – è Andrea Pastorelli, classe 1981, che dopo quindici anni di esperienza all’estero in in diverse organizzazioni internazionali e non profit, è rientrato in Italia proprio con questa idea in testa, contrastare le diseguaglianze educative portando il cambiamento nella scuola stessa. Sono 47 i fellow di Teach for Italy che in questo anno scolastico sono presenti in 37 scuole di sette regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania. La rete di scuole TFI comprende già una novantina di scuole.

Teach For Italy fa parte della rete internazionale Teach For All, creata alla fine degli anni ‘80 da Wendy Kopp (qui il suo discorso ai neolaureati di Pirinceton, l’anno scorso, in cui riassume la sua storia), oggi un network di 60 organizzazioni indipendenti.

Partiamo da lei. Nato a Como ma cresciuto in Toscana, dopo il liceo si è trasferito a Londra per studiare Scienze della Comunicazione e Cooperazione e Sviluppo Sostenibile al King's College. È stato in Africa, in Cina, in America, ha lavorato per la William J. Clinton Foundation e per l’Onu… Come nasce, con questo cv, l’idea di tornare in Italia per occuparsi di scuola?

Sono sempre restio a fare questa connessione fra la mia persona e Teach for Italy, ma capisco la domanda. Innanzitutto io sono la faccia delle disuguaglianze educative del nostro Paese, nel senso che non ero “destinato” ad avere il percorso educativo che ho avuto. Io sono figlio di genitori non laureati, sono stato il primo nella famiglia allargata a laurearmi e a vincere delle borse di studio all'estero e sia nella mia cerchia familiare che fra gli amici ho visto troppo spesso ripetersi la dinamica per cui i figli di chi non si è laureato a loro volta non si laureano. Una delle ragioni per cui ho lanciato Teach for Italy quindi ha a che fare con la mia storia e il con il contesto da cui vengo. La seconda è che avendo vissuto tanto all'estero ho fatto anch’io quell’esperienza che accomuna tutti gli expat, per cui ogni volta che torni in Italia avverti subito come il Paese si stia impoverendo, sia a livello economico perché vedi i tuoi familiari e i tuoi amici che hanno difficoltà ad avere contratti stabili e ad arrivare a fine mese, sia a livello culturale e sociale, con un Paese molto scontento. Insomma, io all’estero non vedevo l’ora di tornare in Italia, mentre i miei amici in Italia non vedevano l'ora di andarsene. Questo ha fatto nascere in me la voglia di tornare per lavorare nell'istruzione, perché avendo lavorato all’Onu ho toccato con mano che per contrastare l’ingiustizia sociale e per far migliorare un paese si deve partire proprio dalla scuola, perché migliorare l’istruzione vuol dire migliorare tutti gli altri outcome: di salute, sociali, culturali… Diciamo che non mi andava giù l’idea di non fare nulla davanti al fatto che l’Italia, un Paese che nei test Ocse Pisa negli anni ‘80 era fra i top al mondo per matematica e scienze, adesso sia crollato, mentre Paesi a middle income che vent’anni fa erano molto indietro ci hanno sorpassato.

Teach for All è nato perché Wendy Kopp, all’ultimo anno di Princeton, si rese conto che c’era un'energia enorme tra i suoi compagni di università all’ultimo anno o appena laureati, giovani che come lei avrebbero voluto cambiare il mondo. La sua idea fu quella di dare ai giovani laureati una missione sociale, chiedendogli di insegnare per due anni. Due anni in cui i migliori talenti si mettono in gioco per il futuro dei ragazzi.

Perché farlo lanciando Teach for Italy?

Perché avevo conosciuto da vicino le straordinarie esperienze di Teach for America, Teach for Ghana e Teach for China. Teach for All è nato perché Wendy Kopp, all’ultimo anno di Princeton, si rese conto da un lato di quanto era stata fortunata e delle strutture economiche che c’erano dietro quella sua “fortuna” e dall’altra che c’era un'energia enorme tra i suoi compagni di università all’ultimo anno o appena laureati, giovani che come lei avrebbero voluto cambiare il mondo. La sua idea fu quella di dare ai giovani laureati una missione sociale, chiedendogli di insegnare per due anni. Due anni in cui i migliori talenti si mettono in gioco per il futuro dei ragazzi. Questa fu l’idea. Teach for America da più di trent’anni inserisce ogni anno 2mila giovani nelle scuole americane.

Così siete partiti anche in Italia…

C’erano già alcune persone che stavano pensando di portare quel modello in Italia, ma nessuno aveva ancora avviato il percorso concreto: ci siamo incontrati con loro a metà 2018, abbiamo iniziato a parlarne e a novembre 2019 c’è stato il lancio di Teach for Italy. Abbiamo iniziato le selezioni per le prime fellowship a gennaio 2020 e siamo incappati subito nella pandemia. L’idea era di partire con 30 fellow in 30 scuole nel 2020, siamo partiti con 13. Adesso abbiamo 47 fellow in 37 scuole e abbiamo appena approvato il piano triennale per arrivare a 150 fellow, in un minimo di 120 scuole all’anno, entro il 2026.

Chi ha sostenuto la nascita di Teach for Italy?

I primi sostenitori sono stati Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo e Fondazione Agnelli, che lavorano da tempo sulle diseguaglianze educative. Abbiamo avuto un finanziamento iniziale da Fondazione Stellantis, a cui nel tempo si sono aggiunte diverse fondazioni partner sui territori: facciamo un lavoro certosino sulle comunità, sia sul fronte della comunità educativa sia di chi se ne prende cura. Per esempio lo scorso weekend siamo stati a Trieste per la formazione dei nostri fellow, finanziati da fondazione Pittini. Stiamo allargando la platea dei donatori, abbiamo avuto una donazione molto importante da Unicredit che ci sta aiutando a finanziare la crescita e poi tanti individui che credono alla nostra missione.

Cerchiamo persone che abbiano una visione dell'insegnamento come metodo di impatto sociale. È una cosa diversa. Persone consapevoli di quanto sia ingiusto il sistema educativo attuale, che lo vogliano cambiare. Questa delle diseguaglianze educative è la grande battaglia di giustizia del nostro secolo, come il cambiamento climatico.

Chi cercate?

Giovani talenti che abbiano a cuore il superamento delle diseguaglianze educative. Le candidature sono aperte per tutto il mese di aprile (questo è il link per candidarsi). Laureati magistrali in qualsiasi disciplina, o laureandi magistrali che otterranno la laurea entro giugno 2023. Ma anche insegnanti che sono già di ruolo o iscritti alle graduatorie provinciali per le supplenze (GPS) o professionisti che stanno lavorando in altri ambiti ma che hanno il desiderio di mettersi a disposizione delle esigenze educative degli studenti e delle scuole. Questo è l’elemento determinante, la spinta all’impatto sociale e alla giustizia sociale, che a dire la verità non ha limiti di età. L’unico discrimine che abbiamo messo è la laurea magistrale, pur sapendo che oggi per alcune discipline la scuola sta portando in cattedra anche persone non laureate: abbiamo voluto dare un segnale politico. L’altro segnale è che cerchiamo persone pronte a spostarsi in tutta Italia, andando là dove le diseguaglianze sono più acute e quindi è più importante e urgente intervenire. Se crediamo davvero – e noi ci crediamo – che l'insegnamento è lo strumento più forte al mondo per generare impatto sociale, non si può dire “non mi muovo da qua”.

Con le candidature finora come è andata?

L’anno scorso abbiamo ricevuto 500 domande e abbiamo selezionato 27 profili.

Una selezione durissima.

Il tema non è essere competitivi, se ci fossero 40 profili giusti li prenderemmo tutti e 40, non è quello il tema. Il punto è far capire che il nostro non è un programma di formazione per insegnanti, ma che cerchiamo persone che abbiano una visione dell'insegnamento come metodo di impatto sociale. È una cosa diversa. Sono molto orgoglioso del fatto che molti dei ragazzi che non hanno passato le selezioni poi ci hanno scritto per dirci “è stato fantastico, ci riprovo l’anno prossimo”.

E cosa valutate?

Noi non valutiamo se sei un bravo insegnante, per quello ci sarà la formazione – devo dire molto intensa – con cui affianchiamo i nostri fellow per tutto il biennio. Noi selezioniamo sulla base di 11 competenze trasversali, con sette prove innovative e anche divertenti. A noi interessa come comunichi, se perdi la pazienza, se sai stare con i ragazzi… Partiamo dalla persona. Un bravo insegnante poi puoi diventarlo, quello che vogliamo sono persone che abbiano la spinta al cambiamento, alla giustizia sociale, all'impatto sociale. Devi mostrarmi che sei consapevole di quanto sia ingiusto il sistema attuale e quanto lo vuoi cambiare. Questa delle diseguaglianze educative è la grande battaglia di giustizia del nostro secolo, come il cambiamento climatico. Se non sistemiamo la scuola, le nostre società sono fregate.

Se al centro c’è l’impatto, cosa ci dice in proposito la storia più che trentennale di Teach for All?

I livelli di impatto sono due e il tema dell’impatto è stato molto approfondito per Stati Uniti, Londra e Mumbai che sono i primi tre programmi avviati. C’è un impatto molto importante in classe, sui risultati didattici e pedagogici degli studenti, miglioramenti in matematica, inglese, sulle discipline insomma ma anche rispetto alla metacognizione di se stessi e su come vedono il mondo. L’impatto del programma è molto forte anche nel trasformare la vita degli studenti, nell’attivazione nei confronti di se stessi e del mondo. Il secondo impatto è sul sistema educativo: il 65% dei fellow – che si sono avvicinati con l'impegno dei due anni – è rimasto all’interno del sistema educativo, ha fatto una scelta di vita. Sono rimasti sia come insegnanti sia – man mano – in altri ruoli, per esempio come dirigenti scolastici, negli uffici distrettuali, nei ministeri. Il fatto è che man mano capisci che la scuola ha bisogno di essere trasformata a più livelli. Un esempio lampante sono le scuole dell’Est di Londra: erano le peggiori scuole d’Inghilterra e oggi sono tra le migliori. Cento di quelle scuole sono state prese in mano da ex fellow che ora sono dirigenti e hanno stretto partnership con soggetti privati e con il Terzo settore e hanno trasformato le scuole.

Ai nostri fellow chiediamo che nell'iscrizione alla graduatoria, una volta individuata insieme la provincia, scelgano le 10 scuole più svantaggiate. I primi 13 fellow che abbiamo selezionato a inizio 2020 hanno già concluso il loro biennio: su 13, 11 hanno fatto il concorso per restare nella scuola e tutti l’hanno passato.

Come selezionate le scuole in cui inserire i fellow di Teach for Italy?

Se la persona passa le selezioni, inizia il percorso formativo con noi. C’è una summerschool molto intensa e poi per tutti i due anni di insegnamento farà anche molti pomeriggi e molti weekend formativi con noi. Il fellow che ne ha i requisiti si iscrive nelle graduatorie per le supplenze, nella provincia che avremo individuato in base all’analisi di dove c’è maggior bisogno di quel profilo. Fondazione Agnelli da diversi anni fa una ricerca molto solida, che in base a dieci criteri – che vanno dalla dispersione scolastica implicita ed esplicita alle percentuali di ripetenze a indicatori socioeconomici del quartiere – ci permette di individuare in ogni provincia d’Italia le 5/10 scuole più svantaggiate. Ai nostri fellow chiediamo che nell'iscrizione alla graduatoria, una volta individuata insieme la provincia, scelgano le 10 scuole più svantaggiate. A quel punto attendono di essere chiamati. Entreranno nelle scuole come tutti gli altri 220mila supplenti, in punta di piedi: sono lì per imparare. Al Sud da pochissimo abbiamo messo a punto un ulteriore percorso, per cui nelle scuole con alti tassi di povertà educativa e di abbandono i nostri fellow entrano come educatori.

Nell’idea di ingaggiare i migliori giovani talenti, c’è il pensiero che insegnare oggi sia per lo più una professione di ripiego?

Io credo che non ci sia solo un problema di attrattività della professione di insegnante, ma soprattutto il problema di trattenere chi si è “lanciato” nell’insegnamento: chi lo fa ha davanti 3-7 anni di precariato assoluto, viene letteralmente buttato in classe, è chiaro che o ti innamori o scappi. Che non vuol dire che chi può scappa e chi rimane è perché non aveva alternative, però certamente se il sistema riuscisse a trattenere più persone valide, sarebbe un bene. Non andiamo a togliere niente a nessuno, la scuola ha bisogno di talmente tante energie e competenze che un investimento di questo tipo fa bene a tutti. I primi 13 fellow che abbiamo selezionato a inizio 2020 hanno già concluso il loro biennio: su 13, 11 hanno fatto il concorso per restare nella scuola e tutti l’hanno passato. Cinque o sei stanno già considerando di sporcarsi le mani anche in altre cose in futuro, un paio con startup educative, alcuni con la consulenza per fondazioni di ricerca. Insisto, ma è una differenza fondamentale: non fanno “solo” gli insegnanti, portano con sé dentro la scuola questa voglia di impatto sociale.

È troppo presto per parlare di impatto in Italia?

Sì, assolutamente. Ne parliamo fra tre anni. Però abbiamo già messo in piedi un sistema di monitoraggio e valutazione dell'apprendimento molto solido, per cui Teach for Italy è giù una buona pratica all’interno della comunità di Teach for All. C’è un coach didattico che segue i nostri insegnanti e che tre volte all'anno va in classe e dà loro dei feedback per migliorare. Tramite il ministero abbiamo stretto una partnership con Invalsi per cui inizieremo a monitorare i risultati Invalsi delle classi dove ci sono i nostri fellow. Chiediamo agli studenti, ai genitori e ai dirigenti di valutare i fellow, come base per migliorare la formazione. Dati che tre volte l’anno vengono discussi con gli studenti: una cosa che aiuta anche a costruire la comunità-classe.


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