Welfare & Lavoro

L’umanità dello sport nel carcere di San Vittore

“Liberi di giocare” è il progetto del Csi di Milano che porta lo sport nel carcere di San Vittore per garantire ai detenuti allenamenti e partite di calcio, basket e pallavolo. E i valori dello sport vengono portati fuori, una volta scontata la pena. La testimonianza di un educatore del Csi

di Redazione

Tra i numerosi progetti che il Csi, il Comitato di Milano svolge sull’hinterland e, nello specifico presso le carceri, ce n’è uno che riguarda la “Casa Circondariale Francesco Di Cataldo”, conosciuta come il carcere di San Vittore: “Liberi di giocare”, all’insegna dello sport, per garantire ai detenuti allenamenti e partite di calcio, basket e pallavolo. Proprio nell’ambito del progetto calcio, nelle scorse settimane è avvenuto un episodio degno di nota: durante uno dei tanti e soliti allenamenti svolti all’interno della struttura penitenziaria, tra i detenuti che partecipano con costanza si nota subito l’assenza di chi è sempre presente, ovvero Paolo. La sua assenza non passa inosservata, ma nessuno decide di dargli troppo peso, anche perché spesso capita che al sabato i detenuti si ritrovino impegnati nei colloqui con i familiari. Dopo quasi mezz’ora dall’inizio dell’allenamento, però, accade qualcosa di inaspettato: Paolo è assente per un motivo ben preciso, perché ha ricevuto la notizia che attendeva da tempo, ovvero è libero e può finalmente uscire.

Si sente il rumore inconfondibile del giro di chiave da parte dell’agente, entra Paolo in campo – indossa jeans e un maglioncino, non la solita divisa sportiva – e scatta un applauso: in campo, dalle finestre, nei corridoi. Applaudono tutti, partono anche i cori in suo onore: “Paolino, Paolino, Paolino”. Paolo è quasi un uomo di mezza età e, dopo due anni e otto mesi, torna a rivedere la luce del sole. Tanto affetto è giustificato proprio dalla sua età e perché dentro il Carcere di San Vittore nel corso del tempo è diventato un punto di riferimento, voluto bene e rispettato. Abbracci interminabili da parte di tutti, con Paolo che si ritrova spaesato, in una situazione in cui probabilmente non è abituato a fronteggiare, non sapendo da che parte voltarsi prima, inondato da così tanta umanità dai suoi “compagni di cella” da farlo sentire quasi in imbarazzo. Travolto dall’affetto della sua famiglia, sì perché dopo anni che condividi ogni minuto della tua vita con le stesse persone, quelle stesse persone diventano la tua famiglia, lascia – quasi come se fosse una superstar dopo l’omaggio ricevuto – il campo e si dirige verso l’uscita: lì dove sa che c’è una nuova e seconda vita che lo aspetta. Spesso, verso le carceri e i detenuti, si ha un atteggiamento pregiudiziale, bollando come “carcerato a vita” – e quindi non un essere umano al nostro pari – una persona solo perché ha varcato, meritatamente o meno, i cancelli di un carcere. Ci si dimentica che ogni persona che finisce dentro, porta con sé una storia, gioie, dolori, sofferenza, rabbia e anche – soprattutto – tanti errori. Ma la storia di Paolo ci restituisce tanta umanità e fa capire quanto noi umani siamo persone fragili. Basta un secondo per compromettere la nostra vita. Ma anche un secondo per tornare a essere umani. Al di là tutto e al netto di tutti gli errori che possiamo commettere, chiunque merita una seconda chance. E la merita anche Paolo, che è tornato a vivere e a svegliarsi con una nuova luce: quella della libertà.

Di Simone Gioia del Csi


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