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Iseo, grazie al budget di salute, un nuovo progetto di vita per chi vive un disagio psichico

In Lombardia, a Iseo, una sperimentazione ha portato alla chiusura di una comunità ad alta protezione per persone con disturbi psichiatrici, che sono tornati sul territorio in un sistema di residenzialità diffusa. Coi fondi che prima erano utilizzati perché rimanessero in struttura, oggi gli utenti costruiscono un percorso di vita assieme a un operatore, ma non solo: ogni anno c'è un risparmio, che viene utilizzato per fare attività di prevenzione nell'ambito della salute mentale

di Veronica Rossi

Alberto è stato dieci anni in una comunità psichiatrica, ma ora vive in un appartamento, insieme a un coinquilino. È un bravo artigiano e lavora vicino alla residenza dove prima era inserito. C’è una persona che lo segue, gli spiega che deve prendere i farmaci, lo accompagna nella quotidianità. Questa persona – come lui – è appassionata di calcio: nel weekend vanno insieme a vedere le partite. Alberto è riuscito anche a coronare un suo sogno: allenare una squadra. Questa è solo una delle storie delle 14 persone che hanno potuto uscire dalle comunità ad alta protezione in cui risiedevano grazie a una sperimentazione del Dipartimento di salute mentale – Dsm di Iseo, che ha ottenuto l’approvazione della Regione Lombardia. Il progetto è possibile grazie al «budget di salute», il finanziamento reso disponibile a una persona con disturbi psichici per ottenere i servizi di cui ha bisogno.

«Negli anni ‘80 le comunità sono state realizzate pensando che potessero essere un luogo di accoglienza, di sostegno, di avvicinamento», dice Domenico Castronuovo, psicologo del Dsm e socio fondatore di Cascina Clarabella, un consorzio di cooperative che si occupano di disabilità fisica e psichica, braccio operativo del dipartimento. «Abbiamo notato, però, che rimanevano luoghi di segregazione». La residenzialità, quindi, va cambiata: deve diventare diffusa, aperta al territorio. «Grazie alla sperimentazione siamo riusciti a chiudere una comunità ad alta protezione di cui Cascina Clarabella aveva l’appalto, riconvertendo il budget di salute», continua Castronuovo. «Con questo denaro, che ammonta a un milione di euro all’anno, siamo riusciti a seguire a casa loro le 14 persone che precedentemente erano ospiti della struttura, più altre 28 persone che sarebbero a rischio di istituzionalizzazione». Rispetto al modello precedente, questo progetto permette infatti di risparmiare circa 250 mila euro per annualità, che permettono di svolgere anche attività di prevenzione sul territorio; si tratta di un grande cambio di paradigma, visto la Lombardia, a oggi, destina circa l’80% dei fondi per la salute mentale alle strutture residenziali. Avere una propria casa – banalmente avere il proprio nome su un campanello – ha a che fare con i diritti fondamentali di un essere umano, con una riappropriazione della propria soggettività. Certo, è una soluzione che richiede impegno, attenzione e cura da parte dei servizi e di tutta la comunità. «Basaglia diceva che quando il paziente è rinchiuso lo psichiatra è libero», dice lo psicologo. «Nella comunità tutto è predefinito, preorganizzato: non c’è spazio per l’individualità. Nelle strutture istituzionalizzanti le forme diventano stereotipie e la soggettività perde di senso. Se però una persona, quando va a casa propria, viene lasciata a rinchiudersi nel suo mondo delirante e c’è un’autoreclusione, è come se si fosse creata un altra comunità, non c’è una vera apertura». Perché la residenzialità diffusa funzioni, l’operatore di budget deve essere presente, aiutare coloro che segue a entrare in rapporto col mondo, stimolandoli a uscire, a portare avanti i loro desideri e le loro progettualità e a emanciparsi. Deve essere anche capace di prendersi le responsabilità che l’altro non riesce a prendersi. Questa figura viene scelta in maniera specifica per ogni paziente, per i suoi interessi, i suoi contatti e la sua capacità di coinvolgere la persona nella società. «Giovanni era in comunità, ma aveva avuto anche episodi di violenza contro le persone, c’era il rischio che finisse in una Rems (Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza, ndr)», racconta Castronuovo. «Abbiamo scoperto che era appassionato di cinema, così abbiamo pensato che un suo interesse potesse essere fare delle riprese del reparto di psichiatria e abbiamo organizzato delle serate di cineforum nelle case in cui sarebbe andato ad abitare. Maurizio, il suo operatore, è stato scelto perché aveva sempre fatto teatro: si è messo a fare un lavoro di accompagnamento ma anche di animazione sociale, aiutando, per esempio, Giovanni a fare delle presentazioni dei film». In un altro caso, invece, è stato chiesto di accompagnare un ragazzo a un suo vecchio professore, molto amato, volontario del Banco alimentare. Lui ha accettato e, oggi, anche il giovane è impegnato nello stesso circuito. «La nostra speranza è che il nostro diventi un modello utilizzato anche da altre realtà», conclude Castronuovo, «bisogna far capire alla Regione che questo approccio fa risparmiare. Sarà però molto difficile: la sanità lombarda è estremamente privatizzata».

I nomi utilizzati per i pazienti e gli operatori di budget sono nomi di fantasia.

Foto in apertura dal sito di Cascina Clarabella.


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