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Se il lavoro educativo fa ammalare chi lo fa

L'accorato intervento di una educatrice, Silvia Sanchini: «Anche noi che ci crediamo “i buoni” a volte non lo siamo affatto e avvalliamo in modo più o meno inconsapevole dinamiche di abuso di potere, manipolazione, sfruttamento e a volte anche maltrattamento, mobbing e violenza. Non voglio pormi in una posizione vittimista né rivendicativa. Ma faccio una domanda: il lavoro in ambito educativo cura o fa ammalare?»

di Silvia Sanchini

Io sono campionessa olimpionica di scelte professionali sbagliate. Cintura nera in errori di valutazione. Ok, scherzo (ma non troppo). Ma se c’è qualcosa che alcune grandi delusioni mi hanno portato, è almeno il desiderio di riflettere. Sulle pagine di Animazione Sociale1, rivista che è per me e molti di noi assoluto riferimento, leggevo un editoriale in cui si parlava della crisi della figura dell’educatore.

A un certo punto l’autore si chiedeva: il lavoro educativo cura o fa ammalare? Molti autori si stanno interrogando da tempo su questo tema, anche in altri ambiti. È da poco uscito il libro a cura dei fondatori di Tlon, Maura Gancitano e Andrea Colamedici, che si intitola proprio: “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” (HarperCollins 2023). Io non conosco bene il mondo aziendale, ma conosco invece molto bene il mondo del Terzo settore e il mondo ecclesiale: li ho abitati in molti ambiti. Sono stata volontaria, tirocinante, collaboratrice dipendente o autonoma, coordinatrice, responsabile e dirigente. Ho anche partecipato a qualche Consiglio di Amministrazione. Non mi sono fatta mancare nulla!

E in questi anni accanto al tanto e al buono che ho ricevuto, non posso negare di avere anche visto tantissimi come me e intorno a me usurarsi, consumarsi, ammalarsi. Ho dato per tanto tempo tutto questo per scontato, per me era assolutamente normale. In un periodo della mia vita, ad esempio, sono rimasta nel mio appartamento in affitto senza riscaldamento perché non avevo soldi a sufficienza per pagare la bolletta del gas. Questo perché la realtà per cui lavoravo mi pagava poco e in ritardo. In quel momento ero talmente tanto concentrata sul mio lavoro, su quella che sentivo come la mia vocazione (termine pieno di ambiguità e ad altissimo rischio di frustrazione e fraintendimenti2) che pensavo solo a colpevolizzarmi per quello che stava accadendo.

Ho affrontato casi professionali difficilissimi, spesso senza un supporto adeguato, senza una opportuna formazione e supervisione che dovrebbe essere garantita a tutti coloro che maneggiano relazioni ad alto rischio e lavorano in contesti sociali ad alta intensità. Mi sono esposta a rischi (e ho visto colleghi farlo) senza adeguate tutele. Abbiamo guidato auto private e non aziendali per lunghi tratti con i nostri utenti a bordo. Abbiamo gestito turni con ragazzi in piena crisi psicotica in solitudine. Abbiamo lavorato ore e ore senza una pausa rischiando che la stanchezza ci facesse fare errori. Ci siamo fatti carico di molto che non ci competeva, abbiamo operato al di sopra delle nostre forze e facendo sacrifici e rinunce, per salvare realtà in cui credevamo, perché a tutti i costi bisognava risparmiare.

Ho affrontato casi professionali difficilissimi, spesso senza un supporto adeguato, senza una opportuna formazione e supervisione che dovrebbe essere garantita a tutti coloro che maneggiano relazioni ad alto rischio e lavorano in contesti sociali ad alta intensità. Mi sono esposta a rischi (e ho visto colleghi farlo) senza adeguate tutele. Abbiamo gestito turni con ragazzi in piena crisi psicotica in solitudine. Abbiamo lavorato ore e ore senza una pausa rischiando che la stanchezza ci facesse fare errori. Ci siamo fatti carico di molto che non ci competeva, abbiamo operato al di sopra delle nostre forze e facendo sacrifici e rinunce, per salvare realtà in cui credevamo

È stata una nostra scelta, mi si dirà. Ma a volte non ci sono alternative. A volte ci si trova costretti. A volte il pericolo è difficile riconoscerlo se sei totalmente immerso in quello in cui credi e che fai.

Cosa ci ha impedito di trovare il coraggio di dire che eravamo in difficoltà? Oppure perché non siamo stati ascoltati? Nel lavoro educativo cerchiamo di offrire ai ragazzi e ragazze di cui ci occupiamo uno sguardo sul mondo che li educhi al riconoscimento dei loro diritti, al rispetto di se stessi e degli altri. Li invitiamo a non invalidare il loro dolore, ad ascoltarlo, a riconoscere e riconoscersi il bisogno di chiedere aiuto. Cerchiamo di insegnare loro la solidarietà, l’ascolto, il prendersi cura. Spesso però questa visione educativa stride con le condizioni professionali a cui i lavoratori del sociale sono sottoposti. Sottopagati, sfruttati, utilizzati, non riconosciuti, non ascoltati.

E, solo sulla carta o nei discorsi programmatici, la persona è davvero al centro. Perché al centro ci sono – forse anche giustamente – conti da far quadrare, servizi da garantire, emergenze a cui rispondere. C’è sicuramente un problema molto più grande: un sistema Paese che indebolisce il Terzo settore con mancanza di finanziamenti, burocrazia, ritardi. Ma chi aiuta – e soprattutto chi è aiutato – spesso in questo orizzonte finisce sullo sfondo.

Credo che, in generale, anche noi operatori sociali troppo poco abbiamo fatto ancora per aumentare questa consapevolezza. Per garantire condizioni lavorative più dignitose per tutti e tutte noi. Forse non abbiamo saputo davvero costruire reti, creare alleanze.

Ma così il mondo degli educatori si è gradualmente impoverito: c’è chi ha cambiato completamente vita ed è partito per un viaggio o ha aperto un ristorante. C’è chi ha scelto di qualificarsi in altro modo e lavorare come insegnante o come psicologo o come ricercatore, ma non più come educatore/educatrice sul campo.

Solo sulla carta o nei discorsi programmatici la persona è davvero al centro. Perché al centro ci sono – forse anche giustamente – conti da far quadrare, servizi da garantire, emergenze a cui rispondere. Anche noi operatori sociali troppo poco abbiamo fatto ancora per aumentare questa consapevolezza. Ma così il mondo degli educatori si è gradualmente impoverito

C’è chi resiste.

C’è chi è arrivato al burn out, ed è stato per questo allontanato o è in crisi profonda.

Ma di chi è la responsabilità di quel burn out, di chi è stata la responsabilità del mio burn out?

C’è in primis, sicuramente, una dimensione individuale. Io ho analizzato a lungo i miei errori e le mie mancanze, la mia incapacità di mettere dei limiti, ad esempio, il mio eccessivo coinvolgimento.

Ma non esiste anche una responsabilità di sistema? Non dovremmo aiutare chi aiuta, perché possa farlo al meglio? Anche noi che ci crediamo “i buoni” (quanto aveva ragione Luca Rastello) a volte non lo siamo affatto e avvalliamo in modo più o meno inconsapevole dinamiche di abuso di potere, manipolazione, sfruttamento e a volte anche maltrattamento, mobbing e violenza. Non voglio pormi in una posizione vittimista né in una modalità rivendicativa. Ma torno alla domanda iniziale: il lavoro in ambito educativo cura o fa ammalare? Cosa stiamo facendo per evitare che la risposta a questa domanda sia irrimediabile?

1. Si tratta del numero 360 (01/2023) ma si veda anche il numero 359 (09/2022) con l’illuminante contributo di A. C. Scardicchio: “Aver cura dei paesaggi interiori” e il numero 353 (03/2022) in cui consiglio in particolare il contributo di S. Tramma: “La «strana» carenza di educatori ed educatrici”.

2. A questo proposito, consiglio l’articolo di Annalisa Falcone: https://annalisafalcone.it/2017/11/07/12-stereotipi-che-accompagnano-la-carriera-di-un-educatore/ ma il tema è così focale che meriterebbe una riflessione a parte.

Silvia Sanchini, educatrice, è Direttrice educativa del Conservatorio SS. Concezione di Roma. Il testo è stato pubblicato in primis sul blog dell'autrice, Riportando tutto a casa.

Foto di Max van den Oetelaar su Unsplash


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