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In Italia la scuola è la vera emergenza sociale

Nel Mezzogiorno il tasso di abbandono scolastico è del 16,6% e a Napoli «arriviamo al 23%», spiega Rachele Furfaro, che in città ha fondato, nel 1987, il network di scuole "Dalla Parte Dei Bambini” ed è la presidente di Fondazione Foqus. «In Campania solo il 16% dei ragazzi partecipa alla scuola a tempo pieno, ciò significa che tutti gli altri, in cinque anni, perdono un intero anno di lezioni. O si interviene subito o ci saranno danni clamorosi, ma non solo per i giovani o per il Sud Italia, ma per tutta la società»

di Anna Spena

Nel Mezzogiorno il tasso di abbandono scolastico è del 16,6%, al Centro-nord, invece, è del 10,4% (dati Svimez). A Napoli «arriviamo al 23%», spiega Rachele Furfaro, l’insegnante che nel 1987 in città ha fondato il network di scuole "Dalla Parte Dei Bambini”, è presidente di Fondazione Foqus e autrice del libro "La buona scuola – Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza”. «In Campania solo il 16% dei ragazzi partecipa alla scuola a tempo pieno, ciò significa che tutti gli altri in cinque anni perdono un intero anno di lezioni di scuola. Ma soprattutto che questi ragazzi avranno meno opportunità, possibilità e anche meno desideri. O si interviene subito ci saranno danni clamorosi, ma non solo per i giovani o per il Sud Italia, ma per tutta la società». Quella della scuola in Italia è una vera emergenza sociale: «Lo Stato continua ad ignorarla», spiega Furfaro. «E non bastano riforme o risposte burocratiche, serve un’azione di responsabilità coraggiosa per ripensare ex novo il sistema scolastico italiano. Prendiamo atto che la scuola non produce più mobilità sociale».

Lei lavora nei quartieri spagnoli di Napoli, una periferia nel cuore della città. Chi nasce in un contesto fragile è destinato ad avere meno possibilità?

I dati sull’abbandono scolastico sono chiari. La scuola perde due studenti e mezzo ogni dieci, tra gli otto e i 14 anni, nei quartieri che chiamiamo della “fragilità sociale”. Questo significa che la scuola non solo non è più in grando di dare opportunità, ma neanche di rispondere ai bisogni essenziali.

Come ripartire?

Facciamoci carico dell’insuccesso della scuola come istituzione. I dati sull’abbandono mettono in luce, secondo me, due questioni. La prima riguarda il soggetto disperso ma l’altra il sistema che produce dispersione. La povertà educativa è arrivata a livelli inaccettabili. Ma per comprendere a pieno il fenomeno dobbiamo guardare alle cause remote che l’hanno provocata e quindi a quei fattori che hanno portato il ragazzo o la ragazza alla scelta dell’abbandono scolastico.

Quanto incide nel Meridione l’assenza di servizi?

Moltissimo. In Campania non ci sono servizi a sufficienza per la prima infanzia. Solo il 9% della popolazione riesce ad accedere ai nidi, contro, per esempio, al 45% che si registra in Valle d’Aosta. O ancora la scuola a tempo pieno in Italia è nata nel 1881, ma fin dall'inizio erano evidenti le debolezze: la legge diceva che si poteva applicare solo negli istituti dotati di mensa, palestre. E quindi va da se che il Sud Italia sia stato penalizzato perché basti pensare che in quegli anni in molte scuole del Sud si facevano i doppi turni. Eppure, già allora, la legge nasceva con l’idea di rispondere a un bisogno che emergenza dalle zone della fragilità sociale, dove i ragazzini avrebbero avuto bisogno di stare a scuola più tempo possibile perché i contesti di provenienza non garantivano una possibilità di formazione. Nascere al nord o sud Italia determina a monte una differenza che segnerà per l’intera vita.

In che senso?

Ci sono alcuni quartieri di Napoli dove l’abbandono scolastico arriva al 33%. Quindi i bambini che vivono in questi quartieri avranno meno opportunità, meno sogni, meno desideri e nessuna rete sociale di supporto. Ci sono contesti sociali dove spesso le famiglie non hanno gli strumenti per la presa in carico dei figli e del loro avvenire. La situazione è estremamente complessa e delicata. Se un sistema è malato deve essere corretto e non considerare il fenomeno della dispersione scolastica come solo dei “poveri”. È necessario un programma su scala nazionale, una trasformazione totale della scuola.

Cosa dobbiamo cambiare dell'assetto attuale?

Noi vediamo ancora la scuola come un organismo statico che trasmette saperi, ma assolutamente non può più essere così. È possibile fare scuola ovunque e in qualunque momento: per strada, nei boschi, nei parchi, dall’alba al tramonto, in tempi e in luoghi diversi da quelli a cui la scuola tradizionale ci ha abituati. Trasformare la scuola tradizionale in una scuola diffusa nella città. In una scuola così concepita i diversi saperi si intersecano, le professionalità della scuola incontrano altre professionalità e competenze, le une e le altre potranno arricchirsi reciprocamente. Dalle panetterie di quartiere all’ombrellaio artigianale, la nostra aula è la città intera. La scuola è indispensabile per i bambini perché rappresenta oggi l’unico reale laboratorio di contaminazione sociale e culturale, dove le diversità continuano a incontrarsi, a dialogare e a costruire insieme il proprio futuro. Non è vero che la pandemia è stata una catastrofe uguale per tutti: ha scavato un solco profondo tra i bambini che appartengono a famiglie benestanti e tutti gli altri. Non è vero che l’intero Paese ha fatto un balzo tecnologico e che tutti hanno seguito l’educazione a distanza: moltissimi bambini, se avessero voce, le confermerebbero che non hanno avuto possibilità di accedere a quella formazione, che pure ogni scuola ha attivato, perché per accedervi non basta possedere gli strumenti tecnologici, c’è bisogno di avere una casa con uno spazio, un luogo in grado di garantire l’attenzione e la concentrazione che la nuova situazione richiede. E c’è bisogno, forse ancora di più, di adulti che si prendano cura di te.

Come si vive a Napoli nei contesti della fragilità sociale?

In moltissime periferie delle nostre città, sicuramente nella mia, intere famiglie vivono in pochi metri quadrati e non hanno la possibilità emotiva, sociale e affettiva, di farsi carico dei propri figli. La soluzione, la risposta la deve dare la scuola. Se è vero che la scuola è il luogo nel quale valorizzare i patrimoni “personali”, essa è allo stesso tempo anche luogo di partecipazione civile a tutela di un bene immateriale che tutti dovremmo ritenere indispensabile per il presente e il futuro della nostra società. Quindi serve uno spiazzamento. Un progetto pedagogico valido non è solo la programmazione delle attività da proporre, non è solo lo spazio da predisporre per svolgerle, non è solo la capacità di gestione, di generare ascolto e, in qualche caso, di dare accoglienza ai bambini che la scuola ospita; è anche, se non soprattutto, la costruzione di un agire consapevole con i bambini e con la ricchezza dei mondi che ciascuno di loro porta e rappresenta. Come la nostra esperienza napoletana esistono tante e tante esperienze in tutto il Paese, insegnanti ed educatori che lavorano nei territori della marginalità sociale e che ogni giorno combattono la battaglia per una scuola nuova. Come lo fanno? Dando vita ad azioni corali che tengono dentro i ragazzi, gli insegnanti, i genitori, il personale ausiliario, in un progetto comune. Solo il progetto comune può dare la forza del cambiamento. Secondo me le classi sono unico reale laboratorio di contaminazione sociale. Solo una scuola inclusiva e non isolata dal proprio contesto può svolgere la sua funzione educativa in modo più efficace. La relazione tra i partecipanti è l’elemento centrale. Educare significa mettere al centro le persone con le loro idee, bisogni e difficoltà e non le discipline e le materie. Significa, in sintesi, riconoscere nei propri alunni non solo studenti ma anche persone. Così la scuola può essere un laboratorio permanente di democrazia, nella consapevolezza che l’educazione e l’istruzione sono decisive per costruire una società migliore.