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L’Europa dei giovani poveri e l’Italia dei “poveri giovani!”

I dati continuano a dirci che il Paese ha bisogno di ripensare le politiche di welfare (cioè di sviluppo) per la famiglia e per i ragazzi. Se abbiamo chiara la priorità, potremo svolgere un’azione comune altrimenti continueremo a leggere i numeri e a limitarci a commentare con un sospiro: “Poveri Giovani!”

di Elisa Furnari

Tre ricerche nelle ultime settimane mettono i giovani al centro e da tre angolazioni diverse ci dicono che il Paese ha bisogno di ripensare le politiche di welfare (cioè di sviluppo!) per la famiglia e per i ragazzi.

L’indagine Eurostat pubblicata nelle ultime ore ci dice che il 20% dei giovani in Europa è a rischio povertà, in media il 3% in più delle loro famiglie. In Italia scaliamo la classifica e ad essere a rischio povertà è un ragazzo su 4, anche in questo caso i giovani più poveri del resto della popolazione che si attesta al 20%. Lo zoom è sul 2021 e a preoccupare in Europa è il tasso di grave deprivazione materiale che supera la soglia del 6%. Una fetta della popolazione che non riesce a far fronte a spese impreviste, agli arretrati, a un’abitazione adeguata a un’alimentazione completa, al tempo libero, alla cultura.

Oltre a fermarci sui dati, a far riflettere è il contesto riportato proprio in fondo alla pagina. «L'esclusione sociale in tenera età può avere conseguenze a lungo termine sia per gli individui che per la società nel suo complesso, poiché può influire su tutti gli aspetti della vita dei giovani. I dati suggeriscono che la decisione di avviarsi verso una vita indipendente uscendo dal nucleo familiare dei genitori aumenta il rischio di povertà. Per molti giovani, cercare un lavoro e mantenere una famiglia è tutt'altro che facile. In effetti, i giovani spesso iniziano con lavori poco retribuiti e sottoccupazione (temporanea o part-time), che possono portare a difficoltà finanziarie. Tuttavia, questa non è sempre la regola in quanto il rischio di povertà per i giovani dipende da numerosi altri fattori, tra cui la situazione finanziaria generale e le politiche di inclusione sociale del luogo in cui vivono».

Ecco, in questa descrizione ho visto chiara la nostra Italia, quella dei dati Istat di qualche giorno prima, quella in cui non si nasce più. Nel 2022 i nati sono scesi, per la prima volta dall’unità d’Italia, sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila. Dobbiamo tornare indietro fino al 2008 per trovare un aumento delle nascite. Meno nascite perché meno coppie decidono di avere figli e anche perché c’è un progressivo invecchiamento della popolazione femminile che decide di avvicinarsi alla maternità, aumentando le provabilità di non riuscire a diventare madre.

Questi numeri, snocciolati a distanza di qualche giorno, non possono che essere letti tutti insieme. Il contesto è lo stesso. Ragazzi che non possono accostarsi a una vita autonoma e coppie che “invecchiano” prima di diventare genitori. Una povertà che prende a schiaffi il nostro Paese perché colpisce proprio quelle energie (i giovani) che dovrebbero tirarci fuori dal limbo. Loro che dovrebbero essere al centro di ogni intervento, non solo nella logica dell’assistenza primaria ma verso l’offerta di una vita completa e dignitosa, che – attraverso la loro crescita – possa assicurare al Paese una classe adulta formata, competitiva, che dia slancio al bel Paese, ben oltre le facili fughe di chi – formato in Italia – spende il proprio talento all’estero.

Quale la reazione? Quale la soluzione? Di certo serve guardare a un sistema di welfare in cui il necessario non sia solo il vitale, serve un welfare che riconosce il diritto alla conoscenza e alla vita di relazione, specie per i ragazzi. E l’orientamento oggi non è questo, o almeno non lo è sempre.

La spesa per il welfare, stimava "Welfare, Italia" a fine anno, è aumentata di 18 miliardi di euro nel 2022 rispetto all'anno precedente, raggiungendo i 615 miliardi: l’aumento è del 18% circa. Ma come? La previdenza assorbe sempre circa la metà della spesa totale (+8,2%), la sanità rappresenta il 21,8% (+15,9%), le politiche sociali sono al 18,2% (+30%), l’ istruzione rappresenta l'11,9% del welfare nel 2022… (+1,9%).

Aldilà dell’angolazione da cui guardiamo il fenomeno, il vero strappo del Paese sta nelle vite dei giovani sempre più fragili. L’investimento sull’istruzione e sul welfare familiare non regge le necessità di un’Italia che si spacca sempre più in due.

Conchita Sannino scrive su Repubblica a partire dai dati Svimez: «Due ragazzini di quinta elementare, nati lo stesso giorno: uno vive in Toscana, dove l’85 % delle scuole ha una mensa, e il 75 dispone di palestra; l'altro scolaro invece sta a Napoli, con l'80% delle scuole senza il tempo pieno, e l’83 che non ha palestra. Il bimbo del Nord avrà avuto alla fine della quinta, grazie al tempo pieno, 1.226 ore di formazione, e quello del Sud solo mille. Risultato: alla fine del ciclo, il ragazzino del Meridione è in credito di un intero anno in termini di formazione, doposcuola, educazione alimentare e allo sport. In pratica: un anno di crescita che manca, il "prezzo" della Costituzione tradita».

Il risultato? Il 16,6% degli early school leavers europei sono al Sud Italia, l’Istruzione pubblica non unisce più… anzi, amplifica la disuguaglianza e restiamo frastornati dal fatto che ai nostri ragazzi – più o meno a Sud – non è garantito l’accesso alla cultura. Sport, teatro, cinema sono beni primari non garantiti a tutti così come la frequenza dei giovani a corsi di lingua “non scolastici”. Parliamo di elementi fondamentali per essere contemporanei, per essere al pari dei giovani europei.

Soluzioni? Direi ipotesi, frutto dell’osservatorio che in questi anni mi ha fornito Fondazione Ebbene. Di certo una leva può essere incentivare le imprese a forme di welfare aziendale che integrino quello pubblico, ma la scelta deve essere quella di interpretare e investire sul welfare culturale, diffuso e indispensabile.

E ancora sì al sostegno verso comunità educanti organizzate che rappresentino un’infrastruttura educativa e di supporto alle famiglie e ai ragazzi, che intervengano in primissima battuta sulla disaffezione scolastica (nel Mezzogiorno il tasso di abbandono scolastico è del 16,6%).

Sì a un massiccio investimento per riconnettere i giovani al diritto alla cultura. In questo caso l’investimento a pioggia è giustificato – anzi auspicato – e i Bonus meritocratici non fanno altro che sancire la regola per cui di un diritto godono solo i migliori (o presunti tali). Su questo il testo di Vittorio Pelligra pubblicato da Vita è illuminante. https://www.vita.it/it/article/2022/12/22/bonus-cultura-ci-perdono-i-giovani/165245/

Sì a un welfare culturale, con una forte trazione familiare e basato soprattutto sulla relazione. Perché le famiglie fragili, i neet, gli elet… si agganciano sul territorio, si accompagnano con la costruzione di una relazione fiduciaria, si seguono a partire dal loro terreno. La prova sono gli esiti dei progetti di welfare, sempre più efficaci quando la dimensione è locale e il rapporto con la comunità pre-esistene.

Se abbiamo chiara la priorità, di certo possiamo scegliere un’azione comune. Altrimenti continueremo a leggere numeri e a scrivere “Poveri Giovani!”.

*Elisa Furnari è presidente di Fondazione Èbbene

Foto Unsplash


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