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L’artista che “si ripara” con l’oro: «Così ho imparato ad amare le mie cicatrici»

Maggio è il mese della sensibilizzazione sulle sindromi di Ehlers-Danlos, un gruppo di patologie rare del collagene, che determinano un indebolimento e una lassità del tessuto connettivo. La performer, scrittrice e musicista Gioia di Biagio ha fatto della valorizzazione della sua fragilità un'arte, che condivide con gli altri per insegnare loro a cambiare punto di vista sulla propria vita

di Veronica Rossi

Maggio è, in tutto il mondo, il mese della sensibilizzazione sulle sindromi di Ehlers-Danlos, un gruppo di rare patologie ereditarie del connettivo. I sintomi sono molteplici – dalla fragilità dei tessuti all’ipermobilità articolare, passando per le disfunzioni del cuore e dell’apparato digerente –, ma, spesso, le esigenze di chi è affetto da queste malattie rischiano di venire sottovalutate: si tratta di una disabilità invisibile, molte volte diagnosticata tardi – non di rado in età adulta –, dopo una lunga serie di visite e, di frequente, di lotte per essere creduti davvero malati e non ipocondriaci. Essere fragili significa anche portarsi addosso molte cicatrici, sul corpo, ma anche sull’anima; non per questo, però, bisogna considerarsi di minor valore. È questa la lezione del kintsugi, l’arte giapponese di riparare gli oggetti in ceramica con l’oro: a volte ciò che a prima vista sembra rotto ha le potenzialità per diventare qualcosa di unico e di prezioso. Come ciascuno di noi. Gioia Di Biagio, performer, musicista, scrittrice, formatrice e attivista affetta dalla sindrome di Ehlers-Danlos ha fatto sua questa metafora e l’ha trasformata in arte e lavoro di cura verso gli altri.

Ci spiega bene cos’è la sindrome di Ehlers-Danlos?

È una collagenopatia, quindi una malattia ereditaria del collagene, che fa sì che i tessuti siano più fragili. Si può avere, per esempio, la pelle più delicata, che si rompe con facilità e si ripara con difficoltà. Il collagene, però, è anche negli organi interni, anch’essi possono essere colpiti. Non c’è solo una sindrome di Ehlers-Danlos, ce ne sono diverse, c’è anche chi non può camminare perché gli si lussano le gambe – anche i legamenti sono lassi – o chi è affetto dal tipo vascolare, che ha problemi molto gravi a livello del sistema circolatorio. Una caratteristica abbastanza comune tra i pazienti, essendo lassi, è lo sforzo che bisogna fare anche solo per stare in piedi, c’è la stanchezza e il dolore cronico. Si entra nel mondo delle malattie invisibili, che a volte si vedono e a volte no. Ho conosciuto persone che hanno avuto la diagnosi a 50 anni, mentre prima erano state sempre considerate ipocondriache persino dal loro medico di base e dalla loro famiglia.

Lei quando ha avuto la sua diagnosi?

Io sono stata fortunata, mi è stata diagnosticata a sette anni da un’amica che faceva la genetista, primaria all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Quando ero piccola mi rompevo in continuazione, se cadevo mi ferivo e dovevamo correre a mettere i punti – e mi raccomando, molto fini –, anche per traumi che per gli altri erano semplici lividi. Il mio mantra era «Attenti che sono fragile» e ovviamente questo mi ha accompagnata negli anni. Il fatto di avere tante cicatrici mi ha segnata per molto tempo, nell’adolescenza, quando sei molto sensibile, finché ho deciso che, come alcuni si fanno dei tatuaggi per segnarsi qualcosa sulla pelle, io ho la mia vita impressa sul mio corpo; a un certo punto mi sono detta che quando ci si piace, ci si piace guardandosi negli occhi e non guardando gli stinchi. C’è tutto un lavoro di cambiamento del punto di vista, scegliendo quello più forte.

In che senso la sua è una malattia invisibile?

Non si può mai generalizzare, ma tendenzialmente puoi passare da giorni in cui canti e balli ad altri in cui stai steso a letto per giorni, perché non ti riesci ad alzare. È strano per la comprensione delle altre persone, non è facile. Io ho imparato a utilizzare la metafora, come quella della pelle come seta e dei cani che mi sbranavano le viscere, perché mi si è ostruita due volte l’arteria mesenterica superiore. Questo per me è diventato uno stile di vita ed è diventato anche ciò che faccio artisticamente: utilizzo la metafora per passare un messaggio.

E una delle metafore più forti che utilizza è quella del kintsugi. Ce la spiega?

È una parola giapponese, «kin» significa «oro» e «tsugi» significa riparare, quindi «riparare con l’oro». È successo che sette anni fa mia sorella ha fatto cadere la statuina della sposina, parte della coppia regalatami per il matrimonio dal mio maestro di Aikido. Si è scusata, era mortificata, poi le è venuto in mente che aveva da poco letto un articolo sul kintsugi. Così io ho detto «Va bene, ripariamola». Mi sono messa a ricostruire questa statuetta che mi rappresentava e quando l’ho rimessa apposto, con tutte le sue crepine dorate, mi sono resa conto che mi assomigliava ancora di più e che in quel momento era simile a me, con le sue imperfezioni valorizzate. Ed è così che è nata una performance, che si intitola «Io mi oro», in cui ripercorro le mie cicatrici proprio con l’oro, come se fossi una regina antica; è un rituale di accettazione, al termine del quale propongo l’oro alle persone. È interessante, perché dopo anni ci sono spettatpro che incrocio per strada che mi mostrano che tengono il loro pezzettino nel portafogli. Poi ho anche scritto un libro per Mondadori, «Come oro nelle crepe. Così ho imparato a rendere preziose le mie cicatrici», in cui racconto la mia storia.

E ora fa anche dei workshop su questo tema.

Nel libro mi sono donata molto sinceramente, così è successo che tante persone mi hanno scritto delle mail e dei messaggi, condividendo con me la loro storia. E sono stati proprio gli spettatori e i lettori a dirmi che volevano fare su loro stessi quello che facevo io. Così è nato il «workshop di kintsugi biografico», in cui rompiamo una ciotola e poi rimettiamo insieme i pezzi, capendo come ogni pezzo, nella vita, porta all’altro. La mia tendenza è quella di sostenere le malattie rare e la medicina narrativa, dove le persone non sono numeri e non sono viste dai dottori come macchine da riparare; nel tempo, però, ho conosciuto diverse associazioni e altre realtà. Ho lavorato anche con i pazienti oncologici; la prima volta ero molto emozionata, perché non volevo sbagliare, volevo dare un bel messaggio. E il laboratorio ha funzionato: è successo che le persone rompevano la propria ciotola, si ritrovavano con dei cocci, uno diventava il matrimonio, un altro un figlio, un altro ancora il cammino di Santiago. Alla fine capitava che si perdessero per strada la malattia o che diventasse un pezzo piccolissimo. È questo che significa cambiare punto di vista: anche se hai passato un periodo molto oscuro, in cui la luce è lontana, fare un punto della situazione e ripercorrere la tua vita ti fa capire come siano successe anche tante cose belle nella tua esistenza.

La foto in apertura è di Giulio D'Ercole, la foto della statuetta e quella in primo piano sono di Ilaria di Biagio


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