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Welfare & Lavoro

Il lavoro oggi: tra chi scalda la sedia e chi “non stacca” mai

Lo certifica il Politecnico di Milano: il 6% dei lavoratori è Job Creeper: non riesce a smettere di lavorare anche nei momenti della vita privata. Di contro, il 12% è Quiet Quitter, si limita cioè a fare il minimo indispensabile. Fenomeni diversi, che sono sintomo di un malessere diffuso: solo il 7% dei lavoratori è felice. Oggi, comunque, osservano gli esperti, il lavoro non è (più) una priorità

di Sabina Pignataro

Gli ultimi tre anni hanno provocato una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro e il fenomeno delle Grandi Dimissioni, che ha caratterizzato l’uscita dalla pandemia, sembra essere tutt’altro che concluso. In Italia, complessivamente, il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi o ha intenzione di farlo, una percentuale che raggiunge il 77% per gli under 27. E il 55% di chi dice di voler cambiare lavoro sta già facendo colloqui. Ma non tutti quelli che lo hanno fatto hanno trovato quel che cercavano: il 41% si è pentito della scelta fatta. Si tratta del fenomeno conosciuto negli Stati Uniti come “Great Regret”, che in Italia caratterizza maggiormente gli uomini e le persone con più di 50 anni di età.
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata oggi durante il convegno “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”.

Quiet Quitter: faccio il minimo indispensabile

Un altro trend emergente è quello dei cosiddetti Quiet Quitter: ben il 12% dei lavoratori italiani (circa 2,3 milioni di lavoratori) oggi si limita a fare il minimo indispensabile e non è coinvolto emotivamente nelle attività lavorative, perché non si sente valorizzato nei propri talenti e ha deciso di “spegnersi”, utilizzando al minimo le proprie energie sul lavoro.
Si chiama quiet quitting, traducibile come “licenziarsi in silenzio” o, più liberamente, “licenziarsi senza licenziarsi”. Il termine – che oramai spopola sui social network e in particolare su TikTok – fa riferimento a una tendenza diffusa trasversalmente tra lavoratori di diverse età, che porta a fare il minimo indispensabile sul posto di lavoro. Senza puntare alla performance, ma valorizzando la propria vita privata a scapito di quella professionale.
Un atteggiamento che descrive il desiderio di slegare la propria identità personale dalla carriera, rifiutandosi di mettere il lavoro al centro della propria vita. In pratica, ci si limita a svolgere soltanto le mansioni richieste. Né più, né meno.
Un approccio che però si traduce in una graduale disaffezione dal luogo di lavoro e dai valori aziendali, evitando comportamenti di semplice cooperazione spesso fondamentali in qualsiasi attività di gruppo.

Job Creeper: non riesco a smettere

All’estremo opposto, c’è un 6% (circa 1,1 milioni di lavoratori) di Job Creeper, che non riesce a smettere di lavorare, anche nei momenti in cui ci si dovrebbe dedicare alla vita privata. E’ il profilo di colui che cerca autonomia e flessibilità nel lavoro; ha un livello di engagement più alto della media, ma i ritmi e i carichi di lavoro sovrastano la sua sfera privata.

Solo il 7% è felice

Fenomeni diversi, che sono sintomo di un malessere diffuso. D’altronde, oggi solo il 7% (circa 1,3 milioni lavoratori) dei lavoratori dichiara di essere “felice”. E solo l’11% sta bene su tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo: psicologica, relazionale e fisica. L’aspetto più critico è quello psicologico: il 42% dei lavoratori ha avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere psicologico e/o relazionale.

Il lavoro non è (più) una priorità

«La pandemia ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e individualismo che porta a non vedere più il lavoro come unica o principale priorità, ma a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita», spiega Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice.

Perché ci si licenzia? Per soldi, per cercare maggior flessibilità, per migliorare salute fisica/mentale

Il fenomeno della Great Resignation non si arresta. L’8% dei lavoratori italiani ha cambiato volontariamente lavoro negli ultimi 12 mesi per aver ricevuto un’offerta, il 3% lo ha fatto senza un’offerta al momento delle dimissioni. Il 12%, invece, ha intenzione di farlo da qui a 6 mesi, il 23% ha intenzione di farlo nel medio periodo (da qui 12-18 mesi).
La prima motivazione per cui ci si licenzia è cercare migliori condizioni economiche e benefit.
Al secondo posto, in crescita rispetto allo scorso anno, la flessibilità nell’organizzare il proprio orario lavorativo.
Al terzo, in continuità, motivazioni legate alla propria salute fisica e/o mentale.
Al di là di un diffuso stato individuale di ansia, a pesare particolarmente sono problemi di natura sociale: tra le principali motivazioni all’abbandono del lavoro troviamo, infatti, le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori.

In generale, emerge come la conciliazione vita-lavoro sia uno degli elementi su cui è più forte l’insoddisfazione dei lavoratori. Altri aspetti collegati a questa dimensione e segnalati come cause di abbandono del lavoro sono la distanza della sede di lavoro rispetto alla propria abitazione e la possibilità di decidere dove lavorare. Un’altra motivazione che porta a cambiare lavoro è la volontà di inseguire i propri interessi personali: si cambia perché il contenuto del lavoro non soddisfa e/o perché si desidera fare delle passioni private il proprio lavoro.


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