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Cooperazione & Relazioni internazionali

Petra, Kamelia, Svetlana: un cuore a metà

Sono per lo più donne romene oppure bulgare. Sono europee, come noi. Vengono in Italia per lavorare come braccianti, con la speranza di garantire un futuro migliore ai loro figli. La giornalista e fotografa Stefania Prandi dà spazio ai loro vissuti nella mostra fotografica "Le madri lontane", ora in giro per l’Italia

di Sabina Pignataro

"Le madri lontane" è una mostra fotografica che sta girando l'Italia per raccontare i vissuti e le esperienze di alcune donne bulgare e romene, (quindi europee) costrette a lasciare il loro paese per lavorare come braccianti nei campi italiani, spagnoli e tedeschi, dove si coltivano la frutta e la verdura vendute in tutta Europa, con la speranza di garantire un futuro migliore ai loro figli. Affrontando condizioni disumane, dove morte e violenza, ingiustizia, sopruso e povertà sono i regolatori delle giornate lavorative. A casa, le bambine e i bambini restano con le nonne e diventano, per il tempo della lontananza, "orfani bianchi" .

La vita di tutti ridotta a sopravvivenza. Talvolta, nemmeno quella.

L'autrice della mostra, Stefania Prandi, giornalista e fotografa, è andata ad incontrarle in provincia di Iași, in Romania, e in quella di Montana, in Bulgaria.

Petra, Kamelia, Svetlana

«Petra era andata via dalla Romania da tre anni. Eppure, lo strappo della lontananza le faceva ancora tremare la voce», racconta Prandi. «Uno dei suoi doveva essere operato a un’ernia inguinale grave. Per lei non c’era altro modo per pagare le medicine: doveva lasciare i suoi nove figli nella Moldavia rumena e diventare una bracciante in Italia». Alina, la sua bambina più piccola, aveva soltanto sei mesi. «Petra mi ha raccontato di averla affidata ai fratelli più grandi. Poi ha socchiuso gli occhi e ha cominciato a piangere. A quarantasette anni aveva fatto diversi lavori, era anche stata anche una muratrice in Romania, ma i soldi che guadagnava erano troppo pochi, quaranta euro per ogni vano costruito. Un lavoro che richiedeva fino a una settimana di fatica».

Svetlana, trentanove anni, è partita quando la figlia più piccola aveva un anno. «Lei e sua sorella stavano con le nonne – racconta Prandi- La più piccola, appena ha imparato a parlare, ha iniziato a chiedere alla mamma: "quando torni? Come mai ci hai lasciate sole?" Dopo quattro anni le ha portate in Italia perché non ce la faceva più»

Quando lavorava nelle campagne di San Severo, in provincia di Foggia, Kamelia, guadagnava tra i venti e i trenta euro al giorno. «Iniziava alle cinque di mattina e finiva alle sette di sera. Viveva in una casa di campagna senza acqua né luce. La facevano dormire dove prima tenevano i cavalli. Le sue figlie sono rimaste in Bulgaria».

«Le donne di origine comunitaria che lavorano nei campi e nelle serre italiane, come in quelle spagnole e tedesche, dove si coltivano la frutta e la verdura vendute in tutta Europa, vengono perlopiù da Romania e Bulgaria», racconta la giornalista. In diversi casi, devono separarsi dai figli e dalle figlie, che restano per mesi nei paesi di origine con le nonne. «La distanza è vissuta con dolore dalle madri. Può succedere che la sofferenza diventi così forte da costringerle a ritornare a casa prima del previsto, abbandonando il progetto migratorio». Alcune, come racconta a Prandi Petronela Nechita, primaria dell’ospedale psichiatrico di Iași, finiscono ricoverate. «La cosiddetta «sindrome Italia», ossia la condizione di disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri, è stata coniata per le badanti ma riguarda anche le braccianti. La scelta di partire è dovuta alla penuria di impieghi e dagli stipendi rumeni troppo bassi».

La «sindrome Italia», ossia la condizione di disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri, è stata coniata per le badanti ma riguarda anche le braccianti.

Petronela Nechita

Nell’istituto comprensivo di Zmeu, in provincia di Iași, (con 432 alunni tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria), il trenta per cento delle madri degli alunni lavora all’estero, insieme ai padri. I bambini e le bambine vengono lasciati con i nonni. Secondo il preside Iurciuc Ilie, la lontananza ha un impatto negativo sull’andamento scolastico. In media, gli studenti con i genitori emigrati hanno voti più bassi e rischiano l’abbandono scolastico. Sono più ribelli, tendono a non rispettare le regole e si intristiscono davanti alle madri degli altri.

La situazione è simile in Bulgaria

«Come mi ha spiegato Rosita Alexandrova, una maestra di sessantaquattro anni di Gabrovnitsa, scuola nella provincia di Montana, nel corso degli anni ha avuto molti alunni con le mamme lontane. La mattina, appena arrivati, le chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli. Certe volte erano particolarmente tristi e le domandavano di aiutarli a scrivere lettere e biglietti da spedire in Italia».

Alexandrova si è commossa più volte nel corso dell’intervista. In generale, la mancanza della mamma è difficile da sopportare. «A volte, gli orfani bianchi, quando arriva l’età dell’adolescenza, cercano consolazione nell’alcol o in altre sostanze psicotrope». Come racconta la giornalista, «secondo la sindacalista Maria Lazarova, abbandonare la Bulgaria è una scelta quasi obbligata: le fabbriche hanno chiuso dopo la fine del blocco sovietico, le opportunità di impiego rimaste sono poche e gli stipendi troppo bassi.

Prandi conosce molto bene questo tema. Nel 2018 aveva pubblicato con la casa editrice Settenove “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (che ha ricevuto una dozzina di premi): un reportage sulle donne che raccolgono e confezionano il cibo che arriva sulle nostre tavole. Il racconto si snoda in tre paesi affacciati sul mare Mediterraneo, Italia, Spagna e Marocco, tra i maggiori esportatori di ortaggi e frutta in Europa e nel mondo. Qui, le braccianti, non solo sono pagate meno degli uomini e costrette a turni estenuanti, ma vengono molestate sessualmente, ricattate, subiscono violenze verbali, fisiche e stupri. Nelle pagine, le vite delle molte lavoratrici che i media ignorano: la sopravvivenza quotidiana, la resistenza alla violenza, il coraggio delle denunce che, malgrado gli sforzi, cadono nel vuoto. Il libro è il risultato di un lavoro di inchiesta e documentazione durato più di due anni, con oltre centotrenta interviste a lavoratrici, sindacalisti e associazioni.

Braccianti e badanti: stesso destino

«In Romania – aveva spiegato lo scrittore Marco Balzano in questa intervista – queste donne campeggiano sui cartelli della pubblicità delle compagnie telefoniche e sono fotografate quasi sempre nell’atto di parlare coi loro figli». L’autore aveva dedicato il libro "Quando tornerò" (Einaudi) al racconto del carico di sofferenza, sulla lacerazione familiare, sul dramma interiore che ogni donna porta con sé».

Daniela, la protagonista, è una donna di 47 anni che una notte di febbraio lascia Rădeni, un paese della Romania, sale su un pullman senza dire nulla ai sui figli, Manuel e Angelica e a suo marito, per raggiungere Milano. I soldi a casa non bastano. «A volte si può solo fare così», è quello che pensa. Nasconde i soldi nel reggiseno, porta con sé pochi oggetti: tanto, «ai vecchi e alle loro famiglie interessano solo le mie braccia». Nella valigia metterà solo le fotografie di quando i bambini erano piccoli. «Riesco a guardare solo le fotografie in cui sono ancora una madre», dirà. In Italia Daniela lavorerà come badante, e poi come tata. In Romania tornerà solo sporadicamente. Finché, ad un certo punto, un evento improvviso l’obbligherà a riavvolgere il nastro degli ultimi anni, sperando di riuscire a riallacciare il legame con i figli. «Il sangue non si sciacqua», scrive Balzano.

​Fino al 19 maggio la mostra sarà a Lauria, in provincia di Potenza, con il supporto della Fondazione Città Della Pace Per I Bambini Basilicata.

Credits
Nell'immagine di apertura: Irina, che è partita per l’Italia quando i suoi figli avevano dodici e quindici anni.
Si ringrazia Stefania Prandi per le foto. Per informazioni sulla mostra: prandi.stefania@gmail.com


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