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Solidarietà & Volontariato

Lo spettacolo dei volontari e il Pnrr da piegare alla realtà

Paolo Venturi, professore dell'Università di Bologna a Forlì, grande esperto di economia civile, racconta le ore della paura e dell'autorganizzazione dei giovani. E ragiona di cosa ci insegni questa tragedia per i giorni a venire. Innanzitutto che il volontariato andrà coinvolto rapidamente nella ricostruzione. E che la politica dovrà cambiare, tutta insieme, l'approccio: non solo recupero delle risorse e loro allocazione ma attenzione alla qualità degli interventi, coinvolgendo il Terzo settore: «D'altra parte la sicurezza è un tema comunitario». E una sfida mutualistica

di Giampaolo Cerri

«Portare giù da Galeata mio babbo, Antenore, 82 anni, è stata dura: non che fosse in pericolo ma quella strada era a rischio e sarebbe rimasto isolato. Convincerlo, però, non è stato semplice». La voce di Paolo Venturi arriva da Forlì, dove l’alluvione ha picchiato duro: tre morti, 5mila sfollati, 227 frane che hanno cambiato i connotati dell’Appennino. E danni inestimabili, ovviamente.

Venturi, è economista dell’Università di Bologna, nella cui sede forlivese dirige l’Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit-Aiccon, il centro studi promosso dall’Alma Mater, dall’Alleanza delle Cooperative Italiane e da numerose realtà profit e non. A emergenza attenuata – «qui è una tragedia», ci aveva whatsappato mercoledì mattina, «stiamo recuperando amici e loro figli per portarli via da case inagibili» – a emergenza attenuata, dicevamo, lo cerchiamo per avere una riflessione del giorno dopo, che provi a guardare il futuro, imminente e più lontano.

Professore, sono stati giorni duri.

Son stati giorni in cui uno viveva la propria paura e quella dell’altro. Amici che ti mandavano la foto dal giardino di casa, con l’acqua a cento metri, e un attimo dopo, un vocale in cui spiegava d’esser scappato al secondo piano.

Tutto rapido.

Tutto maledettamente rapido. Un’acqua di esondazione, velocissima quindi. Alle porte di Forlì, Il Rabbia e il Montone si sono uniti e le cose sono andate peggiorando. Dalle 18 alle 20 di sera, il sindaco chiesto ai cittadini di mettersi in salvo, di non pensare alle cose, di lasciarle lì, di non indugiare.

Messaggi di continuo.

Eh, la dimensione digitale in questa circostanza s’è rivelata salvifica: la connessione in tempo reale ha permesso a moltissimi, di conoscere quello che stava accadendo, minuto per minuto.

Questa tragedia però, come tutti i dati di realtà, ci dice qualcosa.

Parto dall’esperienza che sto facendo adesso. Ho negli occhi quello succede.

Prego.

Beh è situazione drammatica: case, imprese, vita delle persone, economia e servizi, tutto da ripensare. Una situazione quasi post- bellica. Ma qui non ci sarà solo da ricostruire, si dovrà anche ripensare lo sviluppo di un intero territorio, la Romagna. Le cartoline dell’Appennino, sono da buttare…

La furia dell’acqua…

La geografia è cambiata anche se il territorio è molto più della geografia, il territorio è un sistema vivente. E colpito profondamente in qualche modo ha reagito. Abbiam bisogno di tutto e di tutti, ma il coraggio, la speranza, l’attivazione sono emersi in maniera pezzesca.

Ecco, che cosa sta succedendo?

Sta succedendo che, nella tragedia, sta emergendo un’amicizia civile, fra sconosciuti, che è profondissima, nel senso che il bisogno di essere utili è evidentissimo: da un lato tutti sappiamo che poteva toccare a noi e tutti hanno qualcuno vicino che è stato toccato e, nel contempo, c’è in moltissimi il desiderio di essere utili. Ora dovrei dire una cosa forte…

Prego

Che c’è una misteriosa letizia di andare nei luoghi del disastro. Un volontariato fatto da tanti, tantissimi giovani: certo incentivato dal fatto che le scuole siano chiuse, ma resta il fatto che questi giovani decidano, si autorganizzino per andare nei punti nei quartieri e dare una mano. Ed è una cosa eccezionale.

E di che fenomeno si tratta, professore?

È qualcosa che nasce nell’emergenza, però fa venire fuori il senso e il cuore anche di tutta la recente discussione su volontariato (del calo di persone impegnate, registrato dall’Istat, ndr). Perché normalmente l’agire volontario è stato decodificato nella sua dimensione formale, quella che appunto l’Istat lègge, l’impegno formalizzato, incorporato in organizzazioni, piattaforme. Il volontariato di queste ore, di questi giorni è, in parte un’altra cosa, sfugge ovviamente a queste categorie.

È spontaneo e informale.

Le faccio un esempio, ora devo andare a recupere mia moglie nel quartiere San Benedetto e se lei potesse venire come vedrebbe dei volontari che sono là a spalare il fango, a liberare le case, i negozi. Ecco, ne vedrebbe una metà formalizzata, organizzata, ossia inserita in gruppi e associazioni…

L’altra?

L’altra uscita di casa con la scopa, con la pala.

E che cosa ci dice questo dato?

Ci dice che il volontariato ha questa dimensione: da un lato istituzionale e dall’altra di un’urgenza, di un desiderio, di un’idea che non sta nel gratis – ché il volontariato non coincide col gratis ma con la gratuità, che è diverso. Qui, in queste ore, è venuto fuori questo tipo di volontariato, specialmente nei più giovani, nei ragazzi sono desiderosi di condividere quel tipo di esperienza. Essendo utili, pragmaticamente utili, non si sentono altruisti: si danno appuntamento, si raccontano quel che stanno facendo.

Vale solo per loro?

Non solo, vale anche per le aziende, che han lasciato liberi i lavoratori di andare a fare i volontari. C’è un’attivazione che evidenzia, non solo un desiderio di solidarietà ma di fraternità. Chessò c’è quello che, avendo tre auto le condivide, l’altro che è titolare di una lavanderia che si offre di lavare i panni infangati. Una sharing economy del bene.

Un movimento, insomma.

Che nasce, è vero dall’urgenza di un dramma, dalla spinta di una emergenza, ma fa in qualche modo risorgere la possibilità di un’esperienza che stanca ma che fa tornare a casa felici. Questa l’essenza che riscopriamo qui, in questi giorni. Qualcosa che non sta nell’azione, la quale certo non manca, e che non sta neanche nelle persone, che son tante, ma sta di più nella qualità dell’esperienza, nella significatività, nella rilevanza della proposta, che è totalmente libera e autorganizzata. E per famiglie che avevano fatto il mutuo, che hanno figli e si ritrovano la casa distrutta, vedere questa mobilitazione, questi volti, è come rivedere la luce.

Come dei nuovi “angeli del fango”, si è detto, come quelli che da tutto il mondo arrivarono a Firenze nel 1966.

Sì ma i ragazzi di questi giorni riportano a casa un’esperienza pazzesca. Chiedendogli se si sentono angeli, non so che cosa risponderebbero. Di certo, se fossero stati chiusi in casa, impossibilitati ad andar lì, si sarebbero sentiti male.

Il punto qual è, Venturi?

Che queste vicende fanno riemergere la nostra natura, che è una natura relazionale, la vita di comunità è la vita tout court. E sono tutti legami: uno ha un amico, l’altro la compagna, c’è una grande interdipendenza che emerge. E dovrebbe essere pedagogia per il dopo.

Glielo avrei chiesto. Appunto, cosa ci insegnano questi fatti, per il dopo?

Il dopo non potrà essere solo riqualificazione: c’è da rigenerare tutto. A parte che il cambiamento climatico muta tutta le categorie di sicurezza: dopo questa esperienza, nessuno si sente più sicuro. Il tema non è più solo ritirare su gli argini ma cambiare totalmente le logiche con cui si allocano e si spendono le risorse. Seconda cosa: considerato che il volontariato e il Terzo settore sono sostanzialmente un’azione imprescindibile, potente e pubblica, bisogna coinvolgerli presto nei processi di rigenerazione del dopo. Sennò per l’ennesima volta sono ridotti solo tappabuchi. D’altra parte la sicurezza è meccanismo collettivo, anzi starei per dire comunitario, che ha bisogno di logiche diverse.

Spieghiamolo bene, professore.

In Emilia Romagna la pandemia ci ha colpiti duramente. Questa ambientale è la seconda, grande emergenza. Sono sfide, transizioni che possono essere affrontate solo attraverso meccanismi cooperativi ma che vanno registrati prima, che devono cioè essere alla base delle politiche.

E la politica, dunque, a che cosa è chiamata?

A non fare semplice esercizio di spesa, ma a essere attenta a come questa spesa si attui, alla qualità stessa, al reinvestire in una serie di elementi di pubblica utilità, mettendo al centro il protagonismo di comunità che si sta dimostrando il vero asset di questa emergenza.

Ancora una volta la politica è chiamata a fare sul serio.

Il ruolo politico non può essere solo il reperire i fondi – e ne devono trovare tanti, perché qua è un bagno di sangue, ci vuole l’Europa e anche il Pnrr andrà piegato alla realtà.

In che senso, professore?

Nel senso che la realtà ci sta dicendo altro: che van ridefinite le priorità in una regione in cui i Colli bolognesi sono irriconoscibili, ci sono state frane a centinaia, sono saltate strade. Di cosa stiamo parlando? Il compito della politica, ripeto, non è recuperare fondi ed allocarli, ma il declinare il come questi fondi devono essere spesi e con quali priorità.

Ecco, con quali priorità?

Oggi c’è priorità climatica, evidentemente. Non si tratta solo ritirare sugli argini, occorrerà rivedere le strategie, l’uso del territorio, la compensazione. Ma c’è anche un’altra cosa: le strade e le case che sono venute giù richiederanno scelte diverse in tema di allocazione della spesa pubblica, col metodo sussidiario, di tutti i soggetti. In questo momento stiamo lavorando alla raccolta fondi per la Caritas (a piede, il link, ndr), per ripristinare l’Emporio solidale che aggancia e sostiene i poveri, i quali oltre al danno fisico, ambientale, si vedono bloccata questa macchina di sostegno. E poi le famiglie, ce ne sono alcune davvero in sofferenza. Insomma, per tornare alla politica, le risorse saranno infinitamente inferiori al bisogno, occorrerà un grande esercizio sul come utilizzare queste risorse. Dove le divisioni non saranno possibili, accettabili, sarebbero ridicole.

Cambia il concetto di sicurezza, aveva accennato prima.

Si va sempre più verso una sicurezza come cura, dove l’esperienza delle persone, la comunità, la qualità delle scelte amministrative diventa fondamentale. Serve un sano pragmatismo che immagini la politica a individuare soluzioni buone per il futuro.

Come se lo immagina allora il coinvolgimento ex-ante e non più ex-post dei volontari?

Prendiamo il Pnrr, che è la più grande opportunità di finanziamento che abbiamo avuto. Qual è il grado di coinvolgimento della Pubblica amministrazione nell’allocazione delle spese che riguardano il welfare di comunità, la cura, la sicurezza. Non si tratta di dare soldi al Terzo settore! Si tratta di assumere l’interesse generale come un’azione corale, che è diverso! È chiaro che poi, essendo questo un territorio che ha un grande capitale sociale, anche quando escluse queste forze poi emergono comunque.

È fisiologico che emergano.

Certo ma facciamo l’esempio delle aree interne. Il problema del dopo sarà ritirarle su o costruire politiche per riabitare quei luoghi, che si sono disertificati? È chiaro che la strada vada rifatta ma quelle che son state fatte, nel corso degli anni, son servite a scappare da quei luoghi. Ora il tema è ricostruire quelle strade per far riabitare quelle aree, perché se non ci sono gli abitanti non c’è la cura! Molti dei danni, aldilà del fatto eccezionale, dipendono appunto dalla disertificazione della vita. Il tema è riabitare o solo riedificare questi luoghi? La velocità con cui si riabita deve essere maggiore di quella con cui si cementifica ma le politiche sono chiamate a discernere.

Con spirito bipartisan, si diceva prima…

Eh sì perché i cittadini non tollererebbero divisione su questo. Anche perché dividersi, in politica, ridurre la possibilità di potercela fare. Guardi che queste sono tutte sfide cooperative, mutualistiche, come mutualistico è lo scambio che è al centro dell’attività volontaria di cui abbiamo parlato: ci si rende utili per qualcuno e riceviamo in cambio un’esperienza che fa tornare a casa stanchi ma felici.


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