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Disagio giovanile, «per aiutare i ragazzi ci prendiamo cura dei genitori»

«È sempre più evidente come la fatica non sia prerogativa dei giovani, ma coinvolga anche i genitori», osserva Elena Giovanardi, psicoterapeuta responsabile del progetto Con.Te.Sto di Fondazione Arché, una delle voci del magazine di VITA di maggio, "Gioventù Bruciata". «Per questo proponiamo una possibilità di spazio a entrambi o anche una terapia familiare». Qui il suo intervento integrale

di Sabina Pignataro

Gli interventi di prevenzione sono molto cresciuti in questi ultimi anni, complice anche l’utilizzo dei social per divulgare e sensibilizzare su temi che interessano le sofferenze nelle sue diverse sfumature. «Questo ha permesso ai giovani di confrontarsi con più disinvoltura con il come si sentono, si espongono di più senza vergognarsi della propria fragilità, senza sentire il bisogno di nasconderla», osserva Elena Giovanardi, psicoterapeuta e responsabile del progetto Con.Te.Sto di Fondazione Arché, realizzato con il sostegno del Fondo di Beneficienza Intesa Sanpaolo. «È grazie ai ragazzi e alle loro battaglie a tolleranza zero, che stiamo superando luoghi comuni ormai troppo soffocanti. La loro fiducia nella condivisione e nella cura offre anche a noi, educati al mito de “i panni sporchi si lavano in casa propria”, la possibilità di un salto, di un riconoscimento reciproco».

Giovanardi osserva come la fatica non sia prerogativa dei giovani, ma sia «sempre più evidente che a far fatica sono anche i genitori». Nel servizio, chiarisce, «abbiamo assistito ad un aumento delle prese in carico familiari: capita spesso che a chiedere un aiuto siano i ragazzi, ma poi arrivi anche un genitore. Lo sforzo è mettere in relazione la sofferenza con l’ambiente, recuperando il fatto che l’intervento riguarda tutti».

Le testimonianze

«La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo, non devi sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio. Amico mio sono anni che ti dico andiamo via ma abbiamo sempre qualcuno da salvare, e da baciare»: è con questi versi del cantautore Motta che Ilaria, 19 anni, si presenta in Con.Te.Sto, specificando che «non è la fine, è l’arrivo dei 20 anni…».

Sente su di sé tutto il peso e la pressione di dover avere una risposta, una direzione, chiarezza e si sente ancora in alto mare, non è sicura di riuscire a fare la strada giusta, di non fare danni, trovare subito parcheggio, mentre si sente già in ritardo nell’avere un’idea di quale dovrebbe essere il suo posto… «Mi sento così diversa dagli altri, perché devo essere così strana?».

«Ilaria – commenta Giovanardi – porta la sua sensazione di essere fuori tempo rispetto a ciò che la società si aspetta che sia il ritmo auspicabile per lei, il modello più funzionante. Il fatto è che questo tempo, questo ritmo, questo modello sono davvero estranei, esterni a sé, non appartengono ai ragazzi, ma alla visione di quel mondo esterno, rappresentato dai genitori, dalla cultura di appartenenza. Questa difficoltà ad adattarsi al contesto sociale, genera nei ragazzi reazioni di fuga o attacco, che se non supportate e sostenute nella ricerca di un proprio significato, prendono la forma di “autolesionismo sociale” (ritiro da un lato, devianza dall’altro)».

La sfida, prosegue l’esperta, «è aiutare i ragazzi ad appropriarsi di un proprio tempo, di un proprio modello, di renderlo soggettivo e interno. Tale processo implica il riuscire a fare i conti con la propria storia, appropriarsene per poi andare oltre».

I ragazzi sono il futuro, si dice senza a volte pensare che stiamo delegando loro qualcosa che riguarda anche noi, il nostro presente e il nostro passato. «Questa aspettativa genera un senso di inadeguatezza, un malessere diffuso che non riguarda solo loro, ma del quale si fanno carico, si fanno portavoce. “I miei genitori? Sono persone profondamente frustrate”, dice Dario, 14 anni. Il ricorso sempre più consistente alla psicoterapia è un sintomo del fatto che siamo umanamente in difficoltà».

«In molti di loro – osserva ancora Giovanardi – c’è il desiderio di sganciarsi da queste aspettative, di intraprendere la propria strada, ma c’è sempre qualcosa che trattiene, che spinge a rimandare il momento, qualcuno che va salvato, un legame affettivo o familiare che lasciare significherebbe abbandonare alla sua fragilità… proprio come recitano i versi di Motta».

Sergio, 17 anni, chiede: «volevo sapere se fosse possibile fare una terapia familiare, sono omosessuale e nel mio paese significa essere lo scarto della società, tutta la mia famiglia lo ha sempre considerato così. Quindi pensavo che potrebbe essere utile affrontarlo insieme».

«È così che in Con.Te.Sto abbiamo assistito ad un aumento delle prese in carico familiari; capita spesso che a chiedere uno spazio siano i ragazzi, accompagnati da un genitore. Durante l’incontro emerge forte la sofferenza non solo dei figli, che il più delle volte hanno più lessico per comunicarla, ma anche dell’adulto. Ecco che proponiamo una possibilità di spazio a entrambi o anche una terapia familiare. Emerge la necessità di uscire dall’individualismo della stanza di analisi; siamo in relazione sempre; lavorare su di sé nella relazione con l’altro consente di vivere sin da subito la consapevolezza che, nel bene e nel male, non viviamo isolati, ma nel mondo. Si tratta di mettere in relazione la sofferenza con l’ambiente circostante, recuperando il fatto che l’intervento è comunitario, riguarda tutti».

Ma la prevenzione, per quanto fondamentale, da sola non basta. Occorre offrire spazi che consentano di andare in profondità, di parlare delle cose, delle esperienze, dei rapporti, delle emozioni, di come si vivono. Il proliferare di definizioni, di diagnosi, di slogan, di post con “i 5 segnali che indicano che potresti avere un disturbo depressivo”, porta a parlare della sofferenza, ma non di cosa significa per ciascuno. Si è sempre più sdoganata la possibilità di accedere a uno spazio di ascolto e di confronto, ma quanto davvero ci si sente liberi di parlare di sé, di ciò che si sente, si prova, di come lo si vive, senza la paura di essere additati o additarsi come persone con dei pregiudizi o peggio ancora “chiuse mentalmente”?

«Prima o poi – spiega l'esperta – si depositerà la polvere delle diagnosi, delle etichette insaporite dalle tendenze del momento ed affioreranno sempre più nitide le richieste di chi porta i segni del dolore sulla e sotto pelle. Sarà sempre più necessario offrire iniziative e spazi accessibili capaci di farsene carico, di rispondere a questo livello. L’invito è quello di fermarsi e riflettere, cominciando da ora ad immergersi nei contesti nei quali i ragazzi vivono e si (tras)formano, dalle famiglie alle scuole. Se i ragazzi non stanno bene, se non sentono la possibilità di una trasformazione generativa, è l’intero sistema comune a perdere senso e direzione».

Con.Te.Sto si pone a questo livello. Offre uno spazio nel tempo che dà tempo; tempo di trovare le proprie parole per raccontarsi, per interrogarsi su quanto si sta vivendo, sul proprio senso della vita perché problematizzare non è rendere problematica una cosa, ma restituirle peso, valore. È un trasmettere la fiducia che questo parcheggio lo si può trovare, c’è di certo, anche se trovarlo è un’operazione faticosa, piena di imprevisti, dove è facile sbagliare strada o farsi del male, ma ciò succede perché siamo vivi.

Per info sul servizio

Con.Te.Sto (Via privata Antonio Gazzoletti 9, attivo dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 20.00) si propone di offrire, a chiunque ne senta la necessità o anche solo la curiosità, la possibilità di mettere mano alla qualità della propria vita insieme a uno psicoterapeuta. Non ci sono criteri di esclusività, si tratta di un servizio accessibile per chiunque.

Il magazine di maggio
La copertina del numero di maggio di VITA punta gli occhi in profondità, dentro quel malessere di adolescenti, ragazzi e giovani che troppo a lungo abbiamo fatto finta di non vedere. Un’inchiesta a tutto campo, che sfida il mondo degli adulti e l'intero paese a cambiare.
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