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Un’ecologia della partecipazione per questa generazione di attivisti

L'intervento del fondatore di "Ti candido": «I più giovani agiscono da soli, allontanandosi dalle istituzioni, che sono ritenute inefficaci; rifiutano il senso di impotenza e si attivano dove hanno impatto concreto: le nuove forme di attivazione non riconoscono come essenziali quei riti collettivi dove ci si confronta e, ponendosi come antenne di cura, si controbilanciano le istituzioni in modo collettivo»

di Michele d’Alena

Di fronte alla recente massiccia mobilitazione di attivisti in Romagna, suonano stridenti i dati Istat secondo i quali il numero di volontari nel settore non profit è diminuito del 15,7% tra il 2015 e il 2021 (fonte). Questo trend suscita riflessioni urgenti, sia a livello locale che globale.

A livello locale, i dati Istat mostrano anche che le organizzazioni non profit italiane rappresentano un pilastro fondamentale per la comunità, svolgendo un ruolo essenziale nello sport, nelle attività culturali, nell'assistenza sociale e nella protezione civile, spesso in collaborazione con le amministrazioni locali. Tuttavia, l'evoluzione di queste organizzazioni le ha portate a una crescente istituzionalizzazione e professionalizzazione, con un maggior coinvolgimento nei servizi essenziali. Molte di queste organizzazioni operano all'interno delle scuole, nelle biblioteche, nei centri culturali e sociali, negli impianti sportivi. Gestiscono bilanci, vincono appalti, si iscrivono a registri appositi. In questo contesto, le rilevazioni mondiali di Edelman o nazionali di Demos diventano strategiche: mentre diminuiscono la fiducia verso le imprese e le istituzioni, così come la partecipazione nelle modalità tradizionali del secolo scorso, cresce con forza l'attivismo civico, soprattutto a livello di quartiere. Sono forme di partecipazione evidentemente più leggere, lontane da quelle rilevate dall’Istat nel Terzo settore, eppure parliamo di fenomeni strettamente collegati. Infatti, dal momento che le organizzazioni non profit si istituzionalizzano, la capacità di coinvolgimento di volontari tende a farsi più difficile, cala come dice Istat. Per capirci, stiamo parlando di una forma di partecipazione costante, a cui possono accedere gruppi di persone con disponibilità di tempo, energia e attenzione. In sintesi, non è da tutti fare volontariato, è più facile per chi è ricco di tempo. Come nei partiti e nei sindacati, infatti, le organizzazioni non profit ingaggiano in modo inversamente proporzionale: se sale la necessità di tempo da dedicare, cala il numero dei volontari.

Sul piano globale una data simbolica segna un cambio di passo: era il 2018 quando una giovane ragazza di nome Greta Thunberg si sedeva davanti al Parlamento svedese, dando inizio a un movimento di lotta al cambiamento climatico che oggi si è tramutato in un'esperienza collettiva globale e ha trasformando milioni di giovani in attiviste e attivisti. Da allora, la lotta al cambiamento climatico è diventata un'esperienza collettiva a livello mondiale. Questi ragazzi non seguono forme tradizionali, essere attivisti per loro non significa essere iscritti ad una associazione di volontariato. Lo confermano anche recenti ricerche accademiche: oggi si partecipa in modo diverso, non in modo assiduo e spesso in forma personale. I più giovani agiscono da soli, allontanandosi dalle istituzioni, che sono ritenute inefficaci; rifiutano il senso di impotenza e si attivano dove hanno impatto concreto. Alcune ricerche parlano di partecipazione molecolare, eppure è forte il senso di appartenenza identitario di una generazione che si sente emarginata perché continuamente esclusa da chi detiene il potere. Essere utili, generare impatto, pare essere il punto di attivazione.

Ma da queste considerazioni ne emerge una preoccupante, che la pandemia ha reso ancor più radicale: questo tipo di attivazione non riconosce come essenziali quei riti collettivi dove ci si confronta e, ponendosi come antenne di cura, si controbilanciano le istituzioni in modo collettivo. Dove possono nascere pressioni e mobilitazioni. Perdono importanza i luoghi dove ci si incontra per condividere, le palestre di apprendimento dove tra pari ci si ritrova per apprendere la militanza e l’arte dell’auto-organizzazione. Politico e personale si uniscono, perché mai come ora in molti agiscono in maniera solitaria e verticale sulle proprie battaglie, evidenziando l’assenza di spazi dove imparare l’arte del mettere assieme istanze e mobilitarsi per i meno fortunati. Rimane tuttavia chiaro che serve tessere alleanze per affrontare il tema della giustizia sociale secondo un’ottica intersezionale.

Con questo quadro, che scenario ci aspetta tra 10 anni? Avremo un paese sempre più fragile e popolato da persone sole? Avremo attivisti che si attivano solo durante le fasi acute delle emergenze, che non si preoccupano dei loro vicini? Sorgono altre domande: cosa possiamo fare fino alla prossima emergenza? Come coniugare il volontariato con la mancanza di tempo ed energie? Come possiamo organizzare qualcosa di più duraturo?

La sfida è enorme e la risposta è intergenerazionale e interculturale. Lo dicono i dati: con sempre più anziani e persone di background migratorio, come non vedere la necessità di apertura e rinnovamento? Forse dobbiamo privilegiare l’ibridazione di realtà civiche e mobilitazioni, favorendo le attivazioni trasversali, provando a creare alleanze tra diverse organizzazioni, anche con quelle più formali. Forse dobbiamo creare spazi di partecipazione, in cui ognuno può trovare la propria dimensione, in base alle sue possibilità. Si tratta dunque di creare le basi per un capitale sociale che ci permetta di vivere in comunità più coese, sia nelle aree meno popolate che nelle nostre città, dove sempre più persone vivono da sole. Il momento storico che stiamo vivendo ci costringe a reinventarci, ma le trasformazioni sono così radicali che possono essere affrontate solo con un nuovo modello basato sul coinvolgimento. E questo vale maggiormente per il settore non profit.

Non è solo colpa della pandemia e non tutte le tensioni sono inedite: i processi di globalizzazione hanno messo in crisi le forme della rappresentanza moderna, rimettendo al centro forme organizzative meno strutturate con una ricombinazione di logiche che impattano sul modo di progettare e amministrare. Lo vediamo anche nel settore privato: il nuovo mantra è creare comunità e coinvolgere dipendenti e clienti. Nascono nuovi modelli organizzativi e figure che cercano di curare le relazioni, di stare nella prossimità non solo fisica ma relazionale, per ascoltare, coinvolgere, co-progettare. E innovare.

Per concludere, il settore non profit deve riconoscere la necessità di avvicinarsi ai giovani. Ma non basta aprire un account su Instagram o offrire corsi di formazione. È necessario avere il coraggio di dare loro un reale spazio. Le opportunità di coinvolgere, attivare e facilitare auto-organizzazione diventano necessarie per ripensare le soluzioni tradizionali e per affrontare i grandi cambiamenti che abbiamo di fronte. Sappiamo che si tratta di superare un repertorio di riti collettivi che in alcuni casi resistono immutati da decenni: basti pensare ai tanti circoli anziani dove il tempo scorre con gesti ripetuti a cadenza regolare. In questi luoghi vanno creati dei vuoti da lasciare ai giovani, che altrimenti cercheranno di dare e darsi cura altrove, dove sarà evidentemente utile.


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