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Mèntore cioè attore dell’inclusione

Quando i minori non accompagnati diventano maggiorenni, vengono meno gli obblighi di tutela e protezione da parte dello Stato ed entra in gioco la figura del mentore. La prima indagine sul mentoring in Italia rileva l’importanza del coinvolgimento e della mobilitazione della società civile

di Ilaria Dioguardi

I mentori sono un “ponte” verso la comunità territoriale e l’inclusione sociale per i minorenni stranieri che arrivano soli in Italia e che diventano maggiorenni. È questa la fotografia scattata dalla prima indagine “Coming of age. Il mentoring come strumento di inclusione sociale per giovani con background migratorio”, presentata ieri e Roma e promossa da Refugees Welcome Italia e Fondazione Hapax/Mentoring con lo scopo di analizzare le esperienze di mentoring realizzate in Italia negli ultimi 5 anni dalle realtà che le hanno promosse. In tutte le esperienze mappate l’importanza del coinvolgimento e della mobilitazione della società civile riveste un ruolo centrale.

Sono 20.089 i minori stranieri non accompagnati censiti nel nostro paese al 31 dicembre 2022: un numero in forte crescita rispetto al 2021 (+64%) e condizionato anche dalle crisi umanitarie che hanno interessato l'Ucraina e il Sudan. Il sistema di tutela specifico per i minorenni stranieri (Msna) che arrivano soli in Italia sembra infrangersi di fronte al compimento dei diciotto anni, momento in cui vengono improvvisamente meno gli obblighi di tutela e protezione da parte dello Stato. Qui entra in gioco la figura del mentore che si inserisce in un vuoto legislativo, sociale ed educativo. «Il mentore riveste una funzione fondamentale», spiega Fabiana Musicco, presidente di Refugees Welcome Italia. «Facilita la creazione e il consolidamento di legami e relazioni significativi. Inoltre, stiamo riscontrando come la società civile risponda in modo molto positivo alla chiamata delle organizzazioni del Terzo settore, un segnale che evidenzia come tanti desiderano esercitare la propria cittadinanza attiva e considerano il mentoring un buon modo per farlo».


Mentoring al centro della tutela

Dalla ricerca emerge come l’esperienza del mentoring si configuri come il punto nodale di questioni molto ampie dove al centro, oltre al tema della tutela dei giovani diventati maggiorenni in una condizione di evidente svantaggio sociale legato alla complessità del viaggio migratorio, si aggiunge l’assenza sul territorio italiano di una rete sociale e familiare adeguata. «È nostra convinzione che il mentoring sia un elemento importante verso l’inclusione sociale. Dobbiamo sostenere e facilitare la creazione di una letteratura sulle pratiche di mentoring», dice Giulia Savarese, direttrice Programma Mentoring, Fondazione Hapax. «Quest’indagine è uno dei primi modesti tentativi di mettere nero su bianco ciò che riguarda il mentoring in Italia. Ci piace pensare che sia una sollecitazione per tutti noi, che faccia emergere altre domande, quindi altre ricerche», commenta Roberta Giunta, responsabile Formazione, Refugees Welcome Italia. Per le prossime indagini «sarebbe interessante coinvolgere i mentees stessi e anche capire le loro esperienze con una differenziazione di genere tra uomini e donne», propone Ivan Mei, responsabile Protezione minori Unicef. «Non vogliamo trasformare i mentori in professionisti, ma fare un lavoro di coordinamento. I ragazzi non accompagnati devono passare tre tipi di transizioni: dall’adolescenza all’età adulta, dal paese di origine al paese di arrivo, da esperienze potenzialmente traumatiche al superamento di questi traumi. Che tipo di ruolo può avere il mentore? Non deve essere solo una figura che affianca, ma deve rafforzare la capacità di autonomia del mentee».

L’indagine analizza le esperienze di mentoring realizzate dalle realtà che le hanno promosse: Defence for Children Italia (Genova), Cir (Roma), Programma Integra (Roma), Esserci (Torino), Cidis (Perugia), Refugees Welcome Italia (Palermo, Roma e Ravenna), Ciac (Parma), Sperimentazioni Tutori Sociali (Esserci Torino, Cir Catania, Oxfam e Associazione dei tutori volontari, Toscana).

Anche se non è ancora possibile elaborare una valutazione definitiva e scientifica sulle ricadute delle relazioni di mentoring sui percorsi di inclusione dei giovani cui si rivolgono, l’indagine quantitativa ha esaminato quattro territori (Emilia-Romagna, Liguria, Toscana e Piemonte) dove sono attivi i progetti Fianco a Fianco, Re-Generation, Tutela Sociale Never Alone – Toscana e Tutela Sociale Never Alone – Piemonte. Sono 171 i matching attivati in queste regioni. Il numero di percorsi di mentoring interrotti prima del termine previsto (12) è molto basso, a testimonianza dell’efficacia di questo modello d’intervento. In prevalenza, le donne si fanno carico del ruolo di mentore (139), con una fascia d’età compresa tra i 30 e i 50 anni. Solo un numero molto basso di mentori possiede un background migratorio. I mentees sono prevalentemente uomini (108 senza contare la Toscana), la maggior parte dei quali si trova in accoglienza istituzionale.

La storia di Jumman e Francesca

«Ci facciamo tante risate insieme, ci prendiamo in giro con rispetto e affetto. Non c’è una relazione mentore-mentee, ma un’amicizia tra due ragazzi della stessa età che si aiutano a vicenda». Si conoscono da circa sette mesi, Jumman e Francesca, bengalese lui, italiana lei (nella foto in apertura, di Unicef, ndr). Le loro vite si sono incrociate grazie al progetto di mentoring Fianco a Fianco, realizzato da Refugees Welcome Italia con Unicef, che ha l’obiettivo di mettere in contatto giovani migranti, arrivati in Italia da minorenni, con volontari che possano dar loro una mano nel percorso di inserimento nella comunità italiana: dal miglioramento della lingua alla conoscenza del territorio, dalla creazione di una rete sociale allo scambio culturale, dal sostegno emotivo a quello più pratico. «Per molto tempo ho frequentato esclusivamente ragazzi migranti come me, soprattutto connazionali», racconta Jumman.

«Grazie a Francesca sono entrato in contatto con tante altre persone e questo mi ha aiutato anche a superare alcuni pregiudizi che avevo sugli italiani». Jumman vive in Italia da un anno e mezzo, quando è arrivato aveva 17 anni ed è stato accolto in un centro di accoglienza per minorenni. «La nostra amicizia è un’esperienza arricchente per entrambi, sotto vari punti di vista. Ci vediamo spesso, compatibilmente con i nostri impegni: andiamo in giro per la città, a piedi o in bici, andiamo al parco a studiare», racconta Francesca. «Questo progetto è un modo per vedere le persone migranti senza il filtro del vittimismo, restituendo loro una voce e l’umanità che spesso viene negata. È bello ascoltare Jumman parlare anche dei suoi desideri, delle sue aspirazioni, riconquistare a poco a poco la spensieratezza che un ragazzo della sua età dovrebbe avere».


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