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Cooperazione & Relazioni internazionali

Centrafrica: una crisi ancora aperta

di Giulio Albanese

In questi ultimi mesi, ho seguito con grande preoccupazione, quanto sta avvenendo nella Repubblica Centrafricana. La ragione per cui ho taciuto su questo Blog, lo ammetto, è stata determinata da un forte senso di frustrazione, derivante dalle ragioni che hanno generato l’ennesima crisi armata in questo Paese dell’Africa Centrale. Dietro le quinte, infatti, si celano interessi geostrategici che vanno ben al di là delle divergenze politico-istituzionali tra i ribelli della coalizione Séléka e il governo del presidente François Bozizé. Le ricchezze del sottosuolo (petrolio a Birao e uranio a Bakouma) costituiscono un fattore di grande instabilità per la sicurezza nazionale. In particolare, le aperture ai cinesi, a livello di cooperazione economica, da parte del governo di Bangui, non sono piaciute a Parigi che pare abbia definitivamente scaricato Bozizé , appoggiando, informalmente, la rivolta. A riprova che gli interessi commerciali sono tali da condizionare il destino di un Paese che, alla prova dei fatti, è tra i più poveri del continente. Ma proviamo ad andare indietro con la moviola della storia. Il 10 dicembre scorso, i ribelli hanno iniziato una veloce avanzata verso Bangui, con l’intento di conquistare il potere. Nata lo scorso agosto dall’alleanza tra Convenzione dei patrioti per la giustizia e la pace (Cpjp) e la Convenzione dei patrioti della salvezza e del Kodro (Cpsk), la coalizione Séléka ha raccolto anche l’adesione dell’Unione delle forze democratiche per il raggruppamento (Ufdr). Secondo le dichiarazioni ufficiali, i ribelli avrebbero lanciato la loro offensiva, accusando il governo di Bangui per il mancato rispetto degli accordi di pace siglati nel 2007, che prevedevano un programma di smobilitazione, disarmo e reinserimento degli ex ribelli del nord. In pochi giorni, Séléka ha occupato il centro minerario di Bria e le città di Batangafo, Kabo, Ippy, Kaga Bandoro, Bambari e Sibut, fino ad arrivare a circa un centinaio di chilometri dalla capitale centrafricana. L’iniziativa diplomatica intrapresa a livello ragionale ha portato all’accordo di Libreville, in Gabon, l’11 gennaio scorso, per porre fine alla crisi che in poche settimane aveva gettato nel caos la Repubblica Centrafricana. Si tratta di un’intesa che prevede un “cessate-il-fuoco” immediato, la conferma in carica del presidente Bozizé e la formazione di un governo di unità nazionale. Dovranno, inoltre, tenersi nuove elezioni legislative, al termine di un periodo di transizione che durerà 12 mesi, durante il quale sarà nominato un primo ministro espressione dei partiti di opposizione. L’accordo di Libreville prevede anche il ritiro di tutte le forze militari straniere presenti nel Paese, ad eccezione delle forze africane di interposizione. Bozizé, giunto al potere nel 2003, grazie ad un golpe sostenuto anche dall’esercito del vicino Ciad, rimarrà in carica fino alla scadenza naturale del suo mandato, nel 2016, ma non potrà revocare il primo ministro durante tutto il periodo di transizione. Il premier e gli altri membri del governo di unità nazionale non potranno, comunque, essere candidati alle prossime elezioni presidenziali. In cambio, la coalizione ribelle Séléka, dopo aver ottenuto la liberazione delle persone arrestate durante il conflitto, si è impegnata a ritirare le proprie milizie dalle città occupate e abbandonare la lotta armata. Sta di fatto che, mentre scriviamo, l’avvenuta formazione del governo di unità nazionale non ha ancora rasserenato gli animi nel tormentato Paese africano. Secondo la stampa locale, i ribelli della coalizione, che hanno ottenuto nel nuovo esecutivo alcuni importanti ministeri (come quello della difesa) continuano a commettere violenze in alcune aree dell’ex colonia francese. Personalmente, sono sempre più convinto che Parigi, nonostante le dichiarazioni altisonanti di Hollande continui ad ingerire pesantemente nelle vicende africane. Una cosa è certa: il conflitto centrafricano, militarmente parlando, può essere definito “a bassa intensità” (Low Intensity Conflict). Ma proprio mentre sembrava acquisito che l’Unione africana avrebbe fatto valere il principio “soluzioni africane per le crisi africane” , l’interventismo francese – a volte palese (come nel caso della Costa d’Avorio, della Libia o del Mali), altre volte mascherato (Centrafrica docet) – dimostra che il continente è ancora fortemente condizionato dal neocolonialismo. I delicatissimi problemi di “state-building” che caratterizzano alcune aree geografiche africane, unitamente all’ossessione delle compagnie straniere in cerca di fonti energetiche, complica, in modo irreparabile, i processi interni dei singoli Paesi, in un contesto di per sé vulnerabile per le condizioni sociali estremamente precarie e l’eccezionale fragilità dei sistemi economici. Lungi da ogni disfattismo, il futuro dell’Africa mi sembra , davvero, tutto in salita.


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