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Cooperazione & Relazioni internazionali

Mandela, un gigante africano

di Giulio Albanese

La morte di Nelson Mandela rimarrà nella Storia come un evento planetario. In un mondo globalizzato, dove le classi dirigenti lasciano molto a desiderare, le diseguaglianze tra ricchi e poveri, unitamente ad altre forme di sperequazione, acuiscono a dismisura l’indifferenza, fare memoria di questo grande statista africano significa, innanzitutto e soprattutto, assunzione di responsabilità per contrastare ogni genere di ingiustizia che determini l’esclusione sociale. Ecco che allora egli rappresenta uno straordinario modello per affermare il cambiamento, quello che egli stesso definiva in riferimento alle sorti del continente, l’agognato rinascimento africano. In questa prospettiva, la chiave di lettura per comprendere la statura del suo carisma politico è tutta racchiusa in una citazione di Marianne Williamson, durante il suo celebre discorso d’investitura a presidente del nuovo Sudafrica, nel1994. «La nostra paura più profonda – disse – non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda, è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, a spaventarci di più…» E Mandela, congedandosi da questo mondo, in cui ha vissuto intensamente, ha dimostrato d’essere stato sempre se stesso, andando al di là di ogni compromesso, con grande responsabilità. Proprio perché, citando sempre la Williamson «quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, inconsapevolmente diamo agli altri la possibilità di fare lo stesso». D’altronde, Mandela non è stato solo un celebre Premio Nobel, un presidente autorevole, il padre della Patria che tutti sognavano in Sudafrica, ma, soprattutto, l’eroe nella lotta contro l’apartheid, uno dei peggiori abomini perpetrati dalla colonizzazione occidentale in Africa. Si era ritirato ufficialmente dalla vita pubblica nel 1999, ma non ha mai interrotto la sua indefessa azione in difesa degli ultimi, portando la sua instancabile battaglia per la pace e oltre i confini del Sudafrica. Reso fragile dall’età e dai 27 anni trascorsi nelle galere del regime segregazionista bianco, già nel 1994, all’epoca delle prime elezioni libere, Mandela era dell’idea che non fosse opportuno fare il presidente a vita. Per lui, forgiato dalla passione impostagli dal regime di Pretoria, l’esercizio del potere doveva essere inteso solo e unicamente come servizio alla nazione, lungi da qualsiasi forma di compromesso. Unanimemente riconosciuto come il leader africano che ha maggiormente contribuito a segnare l’epoca del riscatto dopo l’onta coloniale e le pessime performance di molti regimi, Mandela ha avuto il merito di scongiurare una guerra civile che avrebbe sconvolto il Sudafrica, con conseguenze forse irreparabili. Era un giorno limpido di fine estate nell’emisfero australe, quell’11 febbraio del 1990, quando dal cancello del penitenziario di Victor Vester, vicino Città del Capo, usciva dopo 27 anni il detenuto politico numero “46664”. All’anagrafe risultava “Rolihlahla Dalibhunga”, nato nel villaggio di Mzevo il 18 luglio 1918, per tutti Mandela, detto anche “Madiba”, come veniva solitamente chiamato dalla gente, con riferimento al suo clan. A dare l’ordine di liberarlo era stato Frederik Willem de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e premio Nobel per la pace con Mandela nel 1993. Certamente va affidato alla storia il giudizio sugli esiti della “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” voluta proprio da Mandela e presieduta dal vescovo anglicano e premio Nobel per la Pace, Desmond Tutu. La consapevolezza è che i cinque volumi di rapporto, costati due anni e mezzo d’indagini, oltre a ventimila testimonianze e centinaia e centinaia di audizioni, siano serviti quantomeno, sul piano umano, ad innescare un processo di cicatrizzazione perché le ferite causate dall’odio razziale possano lentamente rimarginarsi. Lungi da ogni retorica di circostanza, Mandela ha, comunque, colmato un vuoto nella leadership del continente africano che si era aperto con l’uscita di scena dei “padri della patria”, dei Senghor, dei Nyerere… Dopo aver colpevolmente tollerato il razzismo per troppi anni, il mondo forse ancora oggi non ha compreso l’enorme valore del miracolo che si è compiuto vent’anni fa in Sudafrica. «Forse non si vuole ammettere – ha saggiamente scritto Giampaolo Calchi Novati – che accettare e praticare il “plurale” voluto dalla storia – alla sola condizione di ripudiare il razzismo e la discriminazione – è meglio che pretendere di ‘territorializzare’ i diritti dei popoli o le aspettative delle minoranze». Il Sudafrica, insomma, nel bene e nel male, può costituire un termine di riferimento, ancora oggi, con tutte le sue contraddizioni, per ogni politica intesa ad alleviare i problemi della transizione in Africa. Qualcuno potrebbe legittimamente obiettare che l’attuale capo di stato sudafricano, Jacob Zuma, non ha assolutamente lo spessore di Mandela. Anzi è una figura così controversa da offuscare, per certi versi, la memoria di Madiba. È vero, ma indietro non si torna. La commozione del popolo sudafricano per la sua morte – da Johannesburg a Pretoria, da Cape Town a Durban – è il segno evidente che lo spirito di Mandela aleggia su tutto il Paese. Grazie Mandela!


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