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Principe Libero è un bel film. Ma non è detto che sarebbe piaciuto a Faber

di Lorenzo Maria Alvaro

È andata in onda ieri sera la prima puntata di puntata del film "Principe Libero" dedicato a Fabrizio De André. Nonostante stasera sia in programma la seconda parte, non essendoci il rischio di fare spoiler o svelare se il protagonista ce la farà a vivere della propria musica e ad emanciparsi dalla propria famiglia, credo si possa già dare un giudizio.

Il film, Luca Facchini alla regia, ha un grande pregio: non è didascalico. Non è la classica produzione italiana a prova di scemo in cui ogni aspetto è sottolineato e calcato.

Se non sapete chi era Luigi Tenco, se non conoscete la discografia di De Andrè o se non avete mai sentito nominare Riccardo Mannerini la narrazione non vi viene incontro. Potete solo andare a informarvi. E questo è un grande pregio.

La scelta dei brani da accompagnare agli accadimenti in alcuni casi è obbligata, come per l'interpretazione di Mina con La canzone di Marinella, del 1968. O come per Preghiera in Gennaio scritta in memoria dell'amico Tenco appena suicidatosi. In altri invece vede la regia fare scelte meno scontate più raffinate e molto funzionali non solo alle immagini che accompagnano ma anche per suscitare in chi ascolta connessioni con la storia del cantautore, con anche balzi in avanti temporali. Penso, ad esempio, alla scena del mercato del pesce accompagnata da "Le acciughe fanno il pallone", con in sottofondo la tipica voce delle pescivendole genovesi che diventeranno celebri nel disco "Creuza de ma" del 2013 (in particolare nel brano "Jamin-a").

Un altro grande pregio è l'interpretazione di Luca Marinelli, almeno per quello che riguarda lo spirito del personaggio, in qualche modo anticipato dal titolo. Marinelli riesce a trasferire allo spettatore la tensione e l'esigenza di De Andrè di essere libero e sé stesso. Una caratteristica ancora più ammirevole forse oggi.

Forse l'unica pecca del film è la mancanza di profondità dei due aspetti forse più importanti dell'intera vicenda umana dell'artista genovese: il rapporto con il padre e il rapporto con l'alcool.

Da una parte l'intepretazione di Ennio Fantastichini dà vita al padre perfetto. Un uomo che percepisce le potenzialità del figlio e lo lascia pressoché sempre libero di fare come gli pare. Girare la notte per bordelli, vivere il proprio alcolismo alla luce del sole, esibirsi su palchi disdicevoli e da poco. Risulta poco credibile che uno degli uomini piùin vista di Genova non avesse, su questi e tanti altri momenti della vita di suo figli, scontri anche duri. Anche perché in alternativa non si capisce questa urgenza di De Andrè di superare la dipendenza della famiglia e imporsi come sé stesso. Nessuno, con un padre come quello del film, vivrebbe del disagio. O avrebbe mai scitto certe cose.

Anche l'alcoolismo risulta un po' troppo all'acqua di rose. De Andrè nel film sviluppa la sua dipendenza eslusivamente di notte. La cosa è stranamente poco probematica. A parte in un caso, nella pellicola questo abuso non risulta mai un disagio nei rapporti e negli affetti o con sé stesso. Difficile da credere. Almeno stando sempre alle parole del poeta.

Ma si sa Fabrizio De Andrè è oggi un dio laico. E in Italia si ha sempre difficoltà a sfidare gli dei. Chissà lui che ne avrebbe pensato.


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