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Ma chi ha detto che il fund raising è una pratica commerciale?

di Massimo Coen Cagli

Vorrei dire la mia su un tema, quello della raccolta fondi per il Sostegno a Distanza, ospitato di recente su Vita con una certa rilevanza, proposto dalle dichiarazioni dell’AIBI e dalla lettera del Presidente della Gabbianella  e che ha immediatamente acceso la discussione sulle varie pagine dei social network e dei blog dedicate al fund raising (qui l’opinione di Elena Zanella).

I due interventi richiamati esprimono in modi diversi una critica al fund raising giungendo fino a scongiurarne l’utilizzo in quanto pratica commerciale e fuorviante rispetto alla identità di una organizzazione. Il presidente della Gabbianella chiede di non usare più il fund raising e di ritornare alle relazioni, pensando quindi che il fund raising non sia basato sulle relazioni ma sulla semplice vendita. Così come l’AIBI propone di vietare l’investimen­to in spot promozionali sul SaD. La cosa evidentemente non mi trova d’accordo anche se nel ragionamento sono state dette cose importanti.

Io mi occupo di formazione e consulenza al fund raising ormai da 30 anni (www.scuolafundraising.it)  e da sempre mi sforzo di far capire, come fanno tantissimi miei colleghi,  che il fund raising non è l’arte di vendere una buona causa e neanche solo la nobile arte di insegnare a donare (come diceva il grande H. Rosso) ma è la strategia attraverso la quale una organizzazione rende sostenibile nel tempo la propria causa sociale garantendone il suo sviluppo rivolgen­dosi ad una molteplicità di soggetti che possano condividerla. Quindi i cardini sono proprio: missione, identità, relazioni.

Eppure spesso non tutti i dirigenti delle organizzazioni non profit hanno socializzato con questa visione del fund raising che ha a che vedere più con la mission e l’identità di una organizzazione che con il marketing.

Oggi ci sono due interpretazioni correnti del fund rising opposte tra loro. Per molti dei dirigenti il fund raising è marketing, tendenzialmente di stampo anglosassone, che i tecnici della raccolta fondi usano in modo anche un po’ cinico da contrapporre ad una visione spontaneistica, tipicamente italiana,  in cui “basta avere una causa sociale e crederci” che poi la provvidenza porterà i soldi. Mentre noi fundraiser (non proprio tutti, ma quasi) da molti anni ci siamo sforzati di dare a questa disciplina un contenuto etico e strategico molto alto tale da renderla una strategia di cui si devono occupare gli stessi dirigenti senza delegarla in toto a strutture e uomini esterni o collaterali alla organizzazione che hanno come compito quello di portare soldi. Ritengo che questa doppia visione del fund raising non aiuterà lo sviluppo del settore.

Tuttavia, il Presidente della Gabbianella, così come quello dell’AIBI, essendo persone degne di considerazione e serissime, se chiedono di liberarsi del fund raising o di alcuni loro strumenti, pur secondo me sbagliando, saranno stai mossi da buoni motivi: evidentemente qualcosa di sbagliato nel fund raising è stato detto o è stato fatto.

A loro favore va detto, che alcune pratiche di fund raising e un approccio troppo improntato alla “cattura del donatore” stanno gradualmente ma sensibilmente facendo perdere credibilità al fund raising: come i sistemi di field marketing applicati in modo avulso dai dialogatori e poco controllati dalle organizzazioni (di questo se n’è parlato lungamente qui), slogan e comunicazioni trite e ritrite sui paesi in via di sviluppo che mirano solo a stimolare pietà e orrore, costi eccessivi di fund raising rispetto alle necessità di finanziamento dei progetti proposti (il che è indice di scarsa efficienza), ecc

Che vi siano dei problemi nel fund raising e un bisogno di rivedere alcuni suoi approcci non v’è dubbio e lo abbiamo segnalato noi fund­raiser per primi da almeno un anno, convinti che le sue performance potranno migliorare solo se migliora la sua qualità. Ma da qui a in­dicare nel fund raising o nella comunicazione promozionale e pubblicitaria la causa di un deperi­men­to della raccolta fondi mi sembra veramente eccessivo. Il problema non è il fund raising ma eventualmente come si fa fund raising e cosa si veicola con il fund raising. Pro­porre di vietare di usare parte dei soldi del SaD per la pubblicità è come chiedere di vie­tare di sostenere spese di viaggio dei cooperanti per un programma di cooperazione allo sviluppo! Molto bello dal punto di vista retorico, troppo semplicistico dal punto di vista strategico.

E siccome la verità non sta mai tutta da una sola parte, inviterei ad individuare le criticità che sono fuori dal fund raising. Mi sembra che gran parte dei problemi che il SaD così come altri programmi non profit mostrano dal punto di vista della raccolta fondi sia imputabile anche  ad una perdita di effi­ca­cia, efficienza e innovatività degli obiettivi e delle strategie proprie dei progetti che ven­gono proposti. Non sono certo io a dire che negli ultimi anni è stata registrata una crisi della cooperazione allo sviluppo, ma sono eminenti esponenti del mondo delle Ong.

Non è sufficiente, quindi, imputare la decrescita dei SaD al presunto taglio che le famiglie fa­rebbero alla solidarietà in tempi di crisi! Anche perché questo non è vero. E’ vero solo per alcune cause sociali, non per tutte. Gli italiani di fronte alla crisi non hanno smesso di do­nare: donano con più capacità di cernita e una maggiore razionalità nella scelta. Molti di coloro che attualmente hanno smesso di donare lo fanno non a causa di problemi economici ma perché delusi o insoddisfatti da quello che fa il non profit. Molti di loro, ad esempio, potrebbero condividere il punto di vista “tranchant” espresso dalla Mannoia tempo fa. Forse sono annoiati anche di un modo molto “markettaro” e aggressivo di fare fund raising  E questo deve imporre alle organizzazioni di cooperazione internazionale di ripensare non solo il loro fund raising ma le loro strategie di azione e di relazione con gli stakeholders, primi fra tutti i donatori. Qualcosa del genere sta avvenendo proprio con la nuova campagna di AIBI che promuove il sostegno “senza” distanza, anche se siamo ancora più sul piano retorico che su quello sostanziale, ma comunque sulla via giusta.

Ora è il caso di comprendere che il fund raising può essere un approccio professionale necessario per ripensare le strategie di sostenibilità del sociale e al contempo anche la mission e i progetti di intervento delle organizzazioni, valorizzando le tipicità e le specificità italiane, come La Scuola di Roma ha proposto agli organizzatori del Forum sulla Cooperazione che si terrà nel prossimo ottobre. Il fund raising è una politica rivolta ai donatori e quindi prevede progettualità, strategia, dialogo e non un semplice programma di marketing per rastrellare soldi.

Insomma: dobbiamo collaborare cari presidenti e non possiamo fare altrimenti. Voi dirigenti occupandovi anche di fund raising e noi professionisti aiutandovi a fare il miglior fund raising possibile: compatibile con le vostre identità le vostre culture e le vostre caratteristiche organizzative, anche nella consapevolezza che non esiste un unico fund raising che va bene per tutti ma più modelli e approcci.

Noi siamo pronti a farlo con passione e affetto, come sempre.

@MCoenCagli


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