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Bambini in carcere. Una questione morale

di Elisabetta Ponzone

“Non un mio crimine, ma una mia condanna”: è il grido di 100mila bambini italiani (sono oltre un milione in Europa) che ogni giorno varcano i portoni dei tanti istituti penitenziari presenti in Europa per mantenere il legame affettivo con il proprio genitore detenuto, fondamentale per crescere.

Centomila bambini circa, ogni giorno in Italia, entrano in carcere per stare qualche mezzora con il papà o la mamma carcerati. La possibile visita – a seconda di come la famiglia, o chi per essa, la organizza – avviene con cadenza giornaliera, settimanale, o mensile. In Italia, si possono “cumulare” non più di sei ore al mese.

Sono bambini emarginati a scuola, nel quartiere dove vivono, nel gruppo sociale di appartenenza poiché sono figli di genitori in carcere. Sono bambini a grave e continuo rischio di discriminazione ed esclusione sociale. Bambini che ogni giorno sopportano il peso dei pregiudizi, della vergogna, delle difficoltà economiche. La reclusione del proprio genitore li coinvolge, ne trasforma e stravolge la vita, rendendoli fragili sul piano psicologico.

L’organizzazione “Bambinisenzasbarre” (www.bambinisenzasbarre.org) ha lanciato una petizione, che chiunque può firmare, diretta alla europarlamentare Jean Lambert (europarlamentare dell’anno 2005 per la Giustizia e per i Diritti umani) affinchè si attivi presso le istituzione dell’Unione europea perché la Risoluzione 24 del 2008 sia realmente applicata da ogni Stato membro, con tutti gli interventi e buone pratiche necessari per raggiungere questo fine. In estrema sintesi, la petizione pone l’accento sull’importanza del rispetto dei diritti del fanciullo, indipendentemente dalla posizione giuridica del genitore, affinché ogni bambino veda rispettato il suo diritto di essere bambino.

Sono concetti così semplici da apparire quasi banali, eppure sono come invisibili in un mondo che sta rientrando dalla fresca e riappacificata Irlanda del Nord col suo G8.

“Il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione.” Così recita il sesto principio della dichiarazione di Ginevra dei diritti del fanciullo, un documento redatto nel 1924 dalla Società delle Nazioni Unite in seguito alle devastanti conseguenze che la Prima guerra mondiale produsse in particolare sui bambini. Per redigerlo la Società delle Nazioni fece riferimento alla Carta dei Diritti del Bambino scritta nel 1923 da Eglantyne Jebb, dama della Croce Rossa, la quale fondò Save the Children nel 1919. Successivamente, con l’istituzione dell’Onu, la dichiarazione è stata approvata il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e revisionata nel 1989, quando a essa ha fatto seguire la Convenzione internazionale sui Diritti dell’infanzia.

Questo documento in realtà non è vincolante per i singoli Stati, ciò significa che non ha valore giuridico nel diritto, e tantomeno nel diritto internazionale, ma impegna i paesi membri soltanto da un punto di vista morale. Chissà perchè la questione morale.

Morale” deriva dal latino “moràlia” che coincide quasi con “etica“. Ovvero la condotta diretta da norme, la “guida secondo la quale l’uomo agisce“. E allora, perchè non agire?


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