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Io, ergastolano, in attesa della semilibertà

di Elisabetta Ponzone

Gabriele lavora con la nostra cooperativa sociale Opera in Fiore da diverso tempo ed è in attesa della semilibertà. Molti amici mi chiedono come sono le persone detenute con le quali lavoro. Gabriele ha scritto questa lettera. Leggetela, è un po’ lunga, ma capirete tutto.

Sono mesi che attendo di arrivare dinnanzi a chi sta per stabilire se effettivamente sono pronto per accedere al beneficio della semilibertà. Mi sono spesso chiesto come sarebbe stato affrontare a ritroso tutto ciò che sono stato e che in fine mi ha messo nella condizione di (eventualmente) accedere a questo beneficio. Mi sono domandato se sono un bugiardo capace di rappresentare ciò che altri desiderano sentirsi dire o se effettivamente, sono diventato “Uomo” senza il bisogno di mentire, come forse fanno in tanti, anche chi, come me, ha ucciso. Mi continuo a domandare se effettivamente quel mostro che albergava nel mio corpo sarebbe in grado di prendere il sopravvento nel mio volere.

Non ho studiato a sufficienza per stabilire quando il male è entrato in me, né se in definitiva ne sia completamente uscito. Quello che so con certezza e che mi fa avere il coraggio di rivolgermi a voi tutti, scrivendo di notte quando il silenzio delle chiacchiere inutili cessa, è che sono veramente stanco di adeguarmi alle masse che mi circondano e che continuano a impormi come devo comportarmi. Non che alcuni dei soggetti che compongono queste masse non siano in grado di stabilire effettivamente quando uno come me che ha commesso tantissimi reati possa cominciare ad accedere a benefici così importanti; quello che intendo dire è che nonostante tutti gli anni trascorsi in carcere, e ormai sono oltre venti, ancora nessuno mi ha saputo spiegare con esattezza come uno come me ha potuto uccidere, dato che quello che si continua a fare è semplicemente convocarmi per inutili colloqui sporadici con psicologi o educatori, aventi come oggetto quasi sempre curiosità su comportamenti di chi avrebbe dovuto educarmi correttamente, genitori in primis e pezzetti di società.

Ciò nonostante, mi chiedo ancora se non è sbagliato far vivere a un uomo come me, ormai quarantacinquenne, quel momento assurdo e inspiegabile che a diciannove anni ha ucciso. Mi domando se facendo riferimento a quel periodo non si dia la possibilità a quell’assurdo “soggetto” l’assassino, di sentirsi ancora parte di me.

Effettivamente comincio a pensare che quel mostro non sia mai vissuto in simbiosi con me, nemmeno per un momento sono stato sotto il suo dominio. Quello che credo è che questa notte, ad una sola notte da quella che mi separa da voi tutti e da una possibile decisione per l’eventuale concessione di un così importante beneficio, mi spaventa moltissimo. Non solo per un eventuale diniego, ma più propriamente, per il fatto che ancora oggi, a distanza di così tanto tempo, mi trovo ancora ingabbiato da quel prepotente mostro che a diciannove anni mi ha abbrancato e portato con lui in un posto che, nonostante continui a sforzarmi per immaginarlo, non riesco a individuarlo.

Sono veramente spaventato al solo pensiero di vivere ancora con questo non ricordo. Vorrei veramente ricordare come ho fatto a farmi brancare da quel mostro. Vorrei cominciare a fare qualcosa per gridargli contro la sua impotenza, facendogli  capire – a quell’indegno essere – che di me non ne potrà più fare uso. E questo perché adesso, se pur a tratti quasi come una tortura che passa di mano in mano, sono riuscito a conoscere i miei oppositori, quelli che, in sostanza, mi fanno notare che i miei diritti hanno perso funzione al momento che ho ucciso.

Credetemi, non serve elencarmi tutti i reati che ho commesso come a voler sottolineare chi sono, perché io non sono più quel Gabriele. Sono certo che sono una persona nuova. Ormai trascorro le mie giornate in attesa che venga domani quasi che l’oggi non mi appartiene più.

Tra i tanti errori che in passato ho commesso, c’è anche quello che non ho dedicato molto tempo allo studio. In effetti mi sarebbe piaciuto molto saper comunicare senza il rischio d’essere frainteso, ma ciò nonostante, questo è un azzardo che riesco ancora a fare dando per scontato che la comunicazione avrà sempre il solito problema. Ossia l’illusione che essa sia avvenuta.

Ormai i miei dialoghi sono rivolti a persone che vivono fuori dal carcere. Da quando esco, soprattutto per lavoro, ho compreso l’importanza dell’essere detenuto, vuoi per colpe o per costrizione.

Io, in effetti, che ormai da parecchi mesi condivido parte delle mie giornate con dei disabili psichici (Gabriele dorme in carcere e di giorno esce per lavorare, ndr), mi rendo conto di essere un privilegiato per il fatto che loro che non hanno commesso alcun reato, sono condannati, comunque, a rimanere incarcerati dal loro corpo per tutta la vita mentre io, che comunque di reati ne ho commessi tantissimi, rimarrò imprigionato semplicemente per il fatto che il mio “fine pena Mai” ha come scopo una punizione esemplare che si crede possa servire come deterrente a chi eventualmente decidesse di arrogarsi coscientemente il diritto di togliere la vita a un altro.

È qui che il mio stato attuale mi manda in confusione. Se si è stabilito che sono stato un criminale, si potrà mai evincerne il contrario, ovvero che non lo sono più? Chi si prenderà la responsabilità di credere a uno che ha ucciso? Chi potrebbe convincersi del fatto che uno come me sarebbe in grado di non nuocere più?

Del mio passato non ricordo molto. Quello che sono stato aveva a che fare con quello che mi circondava, ovvero un maledetto approfittatore di bambini che soggiogandomi e spaventandomi mi ha messo in mano l’arma. Questo è quanto so del mio passato. Quello che a mio avviso ritengo più importante è che adesso tutto quello che faccio dipende da me, dall’Uomo che sono.

E questo mi dice con certezza che il mio posto non è più qui, in carcere.

La semilibertà non so effettivamente in che cosa consiste o, perlomeno, da informazioni di chi ne gode, ne ho evinto qualche passaggio. Ma sarò mai partecipe di una vita sociale utile? In ogni modo non credo più che quello che verrà deciso per me è il frutto di una vendetta come pensavo fosse sino a qualche anno fa. Ora credo che negarmi la semilibertà abbia a che fare con la punizione. Una condizione che di certo nulla ha a che fare con quella che quotidianamente mi dà il mio acerrimo nemico ergastolo, pretendendo da me rispetto, adducendo al fatto che io gli apparterrò per sempre. Oggi ritengo qualsiasi decisione un aiuto affinché questo mostro ergastolo per qualche ora si allontani da me. Tutte le volte che riesco a sfuggirgli e a vivere momenti di vita vera, come in questo ultimo periodo, lui (l’ergastolo), pare arrabbiarsi molto e come questa notte mi tocca sfuggirgli e dimostrargli che io non gli apparterrò mai. Io adesso sono vivo anche se, alcune volte, tra tanti vivi morti, resi tali da leggi interne come le ultime che hanno deciso che io debba vivere con cinquanta euro a settimana. Una delle tante negazioni di civiltà che mi vengono obbligate nonostante gli esiti del mio percorso.

In buona sostanza, e qui mi fermo, desideravo condividere con voi la mia rabbia e le mia disperazione per quello che sono stato e per quanto vorrei essere e, purtroppo, non sono.

Gabriele,

Milano-Opera, aprile 2015  


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