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Attivismo civico & Terzo settore

Peggio per loro

di Sergio Segio

«Non si spara sulla Croce Rossa», dicevano una volta il senso comune e le regole militari. Poi il linguaggio ipocrita della politica ha inventato le “guerre umanitarie” e anche quelle tradizioni sono andate in soffitta, assieme a ogni parvenza di galateo bellico. E sparare sugli operatori umanitari e sanitari è diventato frequente. Nella guerra in Siria, in corso dal 2011, sono già 48 quelli rimasti uccisi, come ha ricordato su “Vita” Tommaso Della Longa, portavoce per il Medio Oriente della Mezzaluna Rossa e della Croce Rossa, in un articolo di Davide Biella.

Le cronache ci hanno ormai abituato agli effetti “collaterali” dei bombardamenti, specialmente nell’epoca dei droni, strumenti di morte che hanno reso la guerra ancor più vigliacca e sempre più alto il numero delle vittime civili.

A differenza dei politici, i militari, nel loro cinismo, hanno meno propensione a mascherare le cose con le parole. La NATO ha annunciato pochi giorni fa che, al termine dell’esercitazione Trident Juncture 2015, cui partecipa anche l’Italia, rimarranno stanziati in modo permanente in Europa i droni utilizzati: si chiamano Predator, che non ha bisogno di traduzione; uno dei suoi modelli si chiama Reaper, vale a dire Mietitore; e non serve qui specificare cosa viene irrimediabilmente tagliato da quei costosi ritrovati della tecnologia bellica.

Come ha scritto il filosofo francese Marek Halter, le guerre saranno pure diventate umanitarie, ma «non ci sono eserciti incolpevoli, perché una bomba non ha stati d’animo, non sa riconoscere i buoni dai cattivi e non sa mai che cosa colpirà» (Danni collaterali e terroristi il dilemma di Camus, “la Repubblica”, 5 ottobre 2015).

In questi anni i droni spesso hanno confuso una festa di matrimonio o un mercato con un campo di addestramento jihadista, facendo stragi di civili in Afghanistan, Pakistan, Yemen. In un passato recente, ad esempio nei più tradizionali bombardamenti NATO del 1999 contro la Serbia, sono stati colpiti numerosi edifici scolastici e ospedali. In Iraq, dove, a quanto pare, l’Italia si appresta a partecipare ai bombardamenti contro l’Isis, dall’inizio del conflitto nel 2003 a oggi le vittime civili sono state tra le 143 mila e le 165 mila, 12.525 nel solo 2015, molte delle quali a causa di attacchi aerei e missilistici.

In questi giorni abbiamo però assistito – se possibile – a un ulteriore salto di qualità, o, meglio, di inciviltà e barbarie. Di fronte alla strage compiuta da un bombardamento americano sull’ospedale gestito da Medici senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan, non ci si è rifugiati dietro la classica scusa dell’errore: forse apparsa poco sostenibile, dati i 22 morti e 37 feriti e stante che dalla dinamica dell’accaduto è apparsa chiara l’intenzionalità, tanto che l’organizzazione umanitaria che gestiva la struttura non ha esitato a parlare di «crimine di guerra». Da parte del governo di Kabul si è sostenuto che nel nosocomio erano ospitati terroristi. E questo, evidentemente, è stato considerato bastante per sterminare decine di medici e di operatori sanitari. À la guerre comme à la guerre. Il fine giustifica qualsiasi mezzo. La guerra “contro il terrorismo” val bene qualche sacrificio umano. Un argomento che non è certo nuovo: è stato usato dalle autorità israeliane durante i bombardamenti sulla striscia di Gaza; è divenuto addirittura un dibattito tra opinionisti dopo l’11 settembre, allorché negli USA alcuni intellettuali di fede liberale e democratica arrivarono a giustificare la tortura per prevenire attentati. Nel nostro piccolo, abbiamo vissuto contraddizioni analoghe al tempo del sequestro di Aldo Moro, quando un padre della Repubblica come Ugo La Malfa si spinse ad ammettere la pena di morte o, successivamente, ministri in carica arrivarono a lodare torture su arrestati.

Marek Halter ricorda che sul medesimo, lacerante, dilemma si confrontarono negli anni Sessanta Jean-Paul Sartre e Albert Camus, attorno all’ipotesi – per nulla teorica, nella guerra di resistenza all’occupazione coloniale francese in Algeria – che un terrorista potesse essere torturato per fargli confessare dove avesse nascosto un bomba in una scuola e salvare così la vita a numerosi bambini. Sartre non seppe o non volle scegliere, mentre Camus fu lapidario: «Peggio per i bambini». Intendeva dire che «qualsiasi cosa accada, non si può trasgredire un principio, perché allora diventano frangibili tutti i principi. In altre parole, non si deve mai torturare nessuno, neanche se ci sono ottimi motivi», scrive il filosofo.

Quella era un’epoca nella quale certo si torturava e uccideva su larga scala (il Novecento è stato secolo breve ma assai insanguinato), ma ancora non si sparava sulla Croce Rossa e non si bombardavano ospedali se non, davvero, per sbaglio. Non erano ancora state inventate le bombe “intelligenti” né il giornalismo embedded.

Ora il dilemma non viene neppure posto. E, in ogni caso, appare rovesciato, perché è la guerra a essere divenuta un sistema terroristico su scala industriale. Si tortura, come ad Abu Ghraib o a Guantánamo, senza porsi troppi problemi. Si fa strage di civili, senza neppure doversi giustificare.

Dall’agosto 2014 a oggi sono stati 7316 i raid aerei della coalizione internazionale contro i miliziani dello Stato islamico, di cui 2634 in Siria e 4682 in Iraq. Secondo la coalizione, gli attacchi, con il lancio di 22.478 missili, avrebbero provocato la morte di circa 15 mila combattenti jihadisti. Le vittime civili ammesse sono un numero incerto: tra le 584 e le 1704. Probabilmente assai di più, data la obiettiva difficoltà del censimento e anche quella di distinguere in modo certo combattenti e non.

Chi decide i bombardamenti avrà, senza saperlo, parafrasato Camus: «Peggio per loro». Peggio per le popolazioni civili, peggio per chi non c’entra. Lo stesso faranno i militari italiani tra poco in Iraq, come già in Libia e nei Balcani. In questo caso, però, non per difendere un principio, ma per difendere un affare. Perché la guerra è sempre, e prima di tutto, un gigantesco, mostruoso, business.


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