Solidarietà & Volontariato

La trappola di Genova e la globalizzazione della violenza: una ricostruzione lillipuziana

di Pasquale Pugliese

Che cosa ha significato l’esperienza del G8 di Genova nel luglio del 2001 per i movimenti impegnati per un altro mondo possibile, lo si può comprendere pienamente prendendola un po’ alla lontana, nel tempo e nello spazio, ricostruendone il clima sociale e politico, nazionale e internazionale. Per questo ho recuperato alcuni dei miei scritti di quel tempo, in cui non c’erano i social ma le informazioni passavano attraverso la dimensione cartacea e – al di là di alcuni sito web piuttosto statici – attraverso le infinite mailing-list.

In preparazione del G8 di Genova

Genova per me, per esempio, comincia a Marina di Massa nell’ottobre del 2020, dove si svolgeva la prima Assemblea nazionale della Rete Lilliput, e dove mi recai con Luca Iori e Donata Frigerio del nodo illipuziano di Reggio Emilia. Ne scrissi un ampio resoconto per Azione nonviolenta (novembre 2000), del quale riporto di seguito alcuni stralci

A circa un mese dall’Incontro di Marina di Massa (assemblea nazionale della Rete di Lilliput, ottobre 2000), proviamo ad abbozzare un primo bilancio complessivo.
Tre giornate intensissime di lavoro dove un numero assolutamente inaspettato di partecipanti ha lavorato nei 5 “gruppi”(si fa per dire, visto che contenevano tutti dalle 150 alle 200 persone) previsti, provando a mettere a punto l’identità e la strategia di questo esperimento politico che non ha eguali in Europa. La sfida è molto ambiziosa: si tratta di immaginare e costruire un soggetto politico reticolare dal basso, capace di far collaborare attivamente i gruppi e i movimenti già esistenti sui territori, al fine di condizionare le scelte dei Gulliver della terra per costruire una economia sostenibile e di giustizia. Di resistere cioè alla violenza della globalizzazione e alla globalizzazione della violenza e di costruirne le alternative, attraverso l’intreccio dei nodi che i lillipuziani vogliono allacciare insieme. Alcuni “gruppi” hanno lavorato su tematiche più largamente condivise ed hanno elaborato obiettivi sui quali già adesso la Rete di Lilliput è chiamata a mobilitarsi, altri su tematiche più delicate per la vita interna, che dovranno essere perciò ancora approfondite.
Tra gli obiettivi condivisi alcuni hanno l’ampio respiro di un vero e proprio “programma costruttivo” volto a modificare in profondità i processi del nostro modello di sviluppo, altre sono campagne di boicottaggio delle multinazionali che opprimono la dignità del lavoro e devastano l’ambiente (per esempio verso McDonald e Benetton, oltre quelle già in atto da tempo nei confronti di Nestlè e Del Monte) ed altre infine sono azioni più specifiche tese a contrastare eventi mediatici come il G8 di Genova.

In particolare, di grande interesse è quanto è emerso dal gruppo di lavoro sul tema “un mondo e un’Italia capaci di futuro”, che ha posto come punto centrale l’impegno per la riduzione dell’ ”impronta ecologica”, che nei paesi dell’Unione Europea è superiore del 70% alla capacità di sopportazione dell’ecosistema, individuando una serie di strumenti di azione specifici. Di altrettanto interesse è quanto è emerso dal gruppo di lavoro sul tema “armi e conflitti, popoli e migranti” che ha posto tra gli obiettivi la riconversione dell’industria bellica e la collaborazione alla campagna verso le “banche armate” (questioni importanti in quanto affrontano il tema fondamentale del legame tra economia e guerra), oltre alla creazione e diffusione di “scuole di pace”.

L’altro importante tema sul quale è stato difficile trovare un linguaggio comune è la nonviolenza. La Rete di Lilliput afferma, fin dal suo manifesto programmatico, che le proprie “strategie d’intervento sono di carattere nonviolento” e l’assemblea di Marina di Massa ha ribadito esplicitamente il carattere vincolante della scelta nonviolenta quale condizione per l’adesione, ma grande è stata la confusione quando dalle affermazioni di principio si è provato a scendere nello specifico. La parola nonviolenza è stata usata nei più svariati significati: da sinonimo di non-vandalismo a termine di giustificazione di azioni di disobbedienza “incivile”, da scelta “filosofica” a pratica opportunistica, il tutto all’interno di un margine di tempo assolutamente insufficiente per abbozzare una riflessione meno superficiale. Ma questo rimane un tema strategico, sul quale la Rete si è impegnata ad avviare una riflessione approfondita sia al fine di elaborare un alfabeto condiviso ed una visione comune che di affrontare impegni diretti, come le azioni tese a “disturbare” prossimo il vertice dei G8 di Genova.
Su questo tema, a mio avviso, sono chiamati a svolgere un sevizio di analisi e formazione gli amici della nonviolenza che da più lungo tempo si misurano con essa, indirizzando i tantissimi giovani che si accostano alla Rete di Lilliput, come forma nuova e dal basso di impegno politico – e che a Marina di Massa hanno espresso in tanti, seppur confusamente, l’opzione per la nonviolenza – verso una chiarificazione teorica ed una pratica coerente”

Avevo preso sul serio anche per me l’impegno che chiedevo agli “amici della nonviolenza” e – in quanto componente del Coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento – nel gennaio del 2001 andai a Genova per partecipare ad un fine settimana di sopralluoghi e simulazione preparatoria delle contestazioni del G8, a cura del coordinamento genovese, (ricordata anche da Antonio Bruno nella seconda puntata del podcast Limoni di Annalisa Camilli su Internazionale). La percezione che ne ebbi fu che la contemporaneità di forme di lotta – anche molto diverse tra di loro – previste per il contrasto al G8 nel contesto genovese avrebbe potuto essere un disastro (“una strage” dice Bruno nel podcast) e, insieme agli amici del Movimento Nonviolento, cominciammo a ragionare sui rischi della ripetitività dei contro-vertici, sia rispetto ai fini che ai mezzi, e sull’ipotesi di non andare a Genova. Di non abboccare alla trappola.

Ne scrivevo così su Azione nonviolenta del maggio 2001:

In questi ultimi anni, a cavallo tra due secoli, molti nodi stanno venendo al pettine.
Da un lato, gli esperti indicano ormai come prossimo il muro dell’insostenibilità ambientale contro il quale il treno in costante accelerazione dello sviluppo capitalista si sta per schiantare, con l’innesco entro qualche decennio – se nessuno frena bruscamente – di una crisi sistemica globale che aprirà scenari di miseria per tutti e di guerre per l’accaparramento delle ultime risorse petrolifere ed idriche. Dall’altro lato, dopo un lungo periodo di tessitura isolata di filamenti di resistenza, gruppi sempre più numerosi di cittadini in tutti i paesi del mondo – al Nord come al Sud – stanno collegandosi in un movimento internazionale di opposizione e costruzione delle alternative a questo modello. Seattle, nel cuore dell’Impero, rappresenta ormai il luogo reale e simbolico di avvio della resistenza organizzata; Porto Alegre, alla sua periferia, rappresenta, con il Forum Sociale Mondiale di gennaio scorso, il luogo di avvio dell’elaborazione del programma costruttivo comune per la realizzazione del “mondo diverso possibile”. Per entrambi i percorsi la prossima tappa sarà l’appuntamento del 20/21/22 luglio a Genova con i responsabili politici degli otto paesi più ricchi del mondo.

All’interno di questo scenario di rinnovato conflitto sociale condotto in modo ampiamente pacifico e creativo, ed a volte decisamente nonviolento, da parte della maggioranza dei partecipanti – e per questo collettore di simpatia anche di persone e gruppi non usi a mobilitazioni di piazza – alcuni segnali indicano un rischio di involuzione verso il cul de sac, già visto, della guerriglia urbana e della repressione poliziesca. Un movimento che a Seattle ha raggiunto il massimo di risultato – blocco e fallimento dell’assemblea del WTO – con l’imprevedibiltà e l’assenza (quasi) totale di violenza, si è via via avvitato nelle successive mobilitazioni pubbliche in un doppio circuito negativo: la ripetitività e l’aumento degli atti di violenza. Ogni incontro pubblico di organismi internazionali, formali o informali, vede ormai il rito delle, ampiamente prevedibili, manifestazioni contrarie con la conseguente militarizzazione delle città; ogni manifestazione o corteo vede ormai il rito della distruzione delle vetrine dei McDonald e delle banche da parte di alcuni gruppi organizzati con la conseguente repressione, sempre più dura, delle polizie nei confronti di tutto il movimento.
Gli avvenimenti di Napoli in marzo hanno dato la percezione di una vera e propria escalation della violenza e il preciso segnale del rischio involutivo del nuovo conflitto verso forme vecchie di lotta, già sperimentate negli anni ’70, che hanno prodotto come estrema, ma inevitabile, conseguenza il terrorismo, la repressione e la stabilizzazione del sistema.

Eppure, le condizioni di malessere sociale ed esistenziale, di incertezza di fronte al futuro, di diffidenza rispetto alla pretesa razionalità del sistema, percepite più o meno distintamente da una grande maggioranza di persone – frastornate da mucche pazze, uranio impoverito, cibi geneticamente modificati, disoccupazione, immigrazione, inquinamento, alluvioni, aumento del costo del petrolio ecc. ecc. – potrebbero oggi favorire la trasformazione del disagio diffuso in dissenso e del dissenso in lotta.
Ma perché questa alleanza con i cittadini del Nord del mondo, ricco e malato, possa avvenire è necessario che l’azione politica dei movimenti si indirizzi sempre più verso una pratica che sveli, nella struttura e nei metodi, la violenza del sistema mettendone a nudo i meccanismi perversi che producono miseria, insicurezza, devastazione culturale e ambientale e guerre. Non può avvenire invece attraverso manifestazioni di piazza che, trasformandosi in prove di forza con la polizia, allontanano le persone dalle nostre ragioni a causa della militarizzazione del conflitto. Tra la violenza grande, ma nascosta ai più, del potere e la violenza pur piccola, ma amplificata dai media, dei contestatori è sempre la seconda che suscita tra la gente spavento e richiesta di protezione allo stesso potere di cui essa è, per molte ragioni, suddita e vittima.

Per minare le basi del consenso su cui si fonda il potere pervasivo del nostro sistema di consumo e sfruttamento, per trasformare il disagio da esso generato in lotta consapevole, bisogna perciò imboccare, come scelta strategica del movimento di lotta in costruzione, la strada nuova – ma antica come le montagne – della nonviolenza.
Non della generica e tattica non violenza che, in negativo, si astiene dal compiere atti violenti, ma della specifica nonviolenza che, in positivo, assume l’insieme dei principi e delle caratteristiche che definiscono il metodo nonviolento a partire dalle campagne gandhiane. E’ questo il metodo di lotta che mira alla comunicazione trasformatrice tanto con l’avversario che con le terze parti, ossia, appunto, con i cittadini da coinvolgere dalla nostra parte. E’ questo il metodo che mira non alla presa del potere, e quindi allo scontro con esso sul piano della forza, ma alla trasformazione di quello da potere dei pochi sui molti a potere di tutti. Del resto, anche l’ultima rivoluzione armata del ‘900, l’insurrezione zapatista (che, con la sollevazione del 1° gennaio 1994 in Chiapas, ha anticipato molti dei temi dei movimenti di resistenza anti-globalizzazione) ha compreso la necessità di abbandonare progressivamente le caratteristiche della guerriglia, al fine di favorire la propria capacità di radicamento e dialogo con l’intera società messicana, evolvendosi verso forme di mobilitazione nonviolenta.”

Nel frattempo, il 3 luglio, nasceva Annachiara, la mia prima figlia, e questo – oltre alla maturazione in seno al Movimento Nonviolento della convinzione che sarebbe stato più saggio organizzare piazze tematiche e nonviolente in tutta Italia, anziché cercare lo scontro, seppure simbolico, a Genova – è stato dirimente nella decisione di non andare al G8 di Genova, ma di allestire con gli amici e i compagni del nodo reggiano della Rete Lilliput la “Tenda” in piazza per (contro)informare sulle ragioni del “movimento dei movimenti”, oltre la narrazione giornalistica che avrebbe guardato alle vetrine rotte anziché ai contenuti della protesta. Ma le vetrine rotte, a cura del black blok, che furono lasciati agire indisturbati, furono solo l’anteprima rispetto alle teste, alle ossa ed alle vite fracassate a cura della polizia.

La trappola di Genova

Nei giorni immediatamente successivi alla mattanza di Genova, alla morte di Carlo Giuliani, alla “macelleria messicana” alla scuola Diaz, mentre ancora continuava la sospensione della democrazia nella caserma di Bolzaneto, scrivevo queste riflessioni a caldo sulla “trappola di Genova”, che girarono ampiamente sui circuiti dei movimenti che cercavano di riprendersi da quanto accaduto.

Nonostante il dolore, l’amarezza e la rabbia per quanto avvenuto a Genova nei giorni passati, cerchiamo di non perdere la lucidità e abbozzare una prima analisi per provare a capire il perché di quanto accaduto, a leggere i nostri errori e a trovare la strada da percorrere adesso.

Il Potere da sempre, quando è o si percepisce minacciato, reagisce con la massima violenza di cui è capace: se necessario spara. Lo fa nella maggior parte del mondo, lo ha già fatto anche in Italia e lo farà ancora e, se questo non dovesse bastare, scatenerà la repressione feroce e indiscriminata. Il potere politico e militare nel nostro paese è in mano ad un governo liberista-mafioso-fascista e, per chi ne aveva qualche dubbio, il comportamento della polizia prima e del suo braccio mass-mediatico poi lo comprova definitivamente. Questo potere non aspettava altro che l’occasione per poter sfoderare tutta la violenza di cui è capace nei confronti di un movimento solido, vero, dal basso e dalla parte della verità e della giustizia, perciò fortemente minaccioso. Non aspettava altro che qualcuno gliene fornisse l’occasione o, almeno, gli fornisse l’opportunità di crearsi l’occasione. Se l’occasione immediata è stata data dai criminali neri, sia che fossero sia che non fossero in combutta con la polizia, l’opportunità più profonda è stata data dal clima di tensione che si è venuto a creare ed è montato intorno al vertice dei G8: le botte di Napoli, il ragazzo ferito a Goteborg, l’attenzione mediatica ossessiva su tutto quanto si preparava per Genova, la mobilitazione dell’esercito, l’annuncio dell’arrivo a Genova da parte di coloro – antimperialisti, insurrezionalisti e quant’altro – che non si riconoscevano nelle raccomandazioni del Genoa Social Forum, la farneticante “dichiarazione di guerra” del portavoce delle tute bianche (salvo dichiararsi pacifista all’ultimo minuto, ma qualcuno forse a ventanni l’ha presa sul serio: attenzione, le parole sono pietre e si porta la responsabilità delle loro conseguenze!), il susseguirsi di esplosioni nella settimana del Vertice.

E poi l’illusione, da parte del GSF [Genoa Socia Forum], di poter tenere insieme – all’insegna del tutti a Genova – ma separate e distinte, in così poco spazio, tutte le forme di testimonianza e azione, dalla preghiera all’assalto alla zona rossa, dalle azioni dirette nonviolente ai vandalismi annunciati: una forma di mobilitazione e contaminazione che ha favorito l’emergere e l’imporsi, da tutte e due le parti della barricata, di coloro che sguazzano nel torbido e danno sfogo – in queste occasioni dove si possono confondere nella massa – alla violenza più brutale di cui sono capaci. E nessuna azione sembra essere stata prevista per neutralizzali. E’ stata una battaglia campale e, come tutte le battaglie giocate sul piano militare, ha avuto la meglio chi ha colpito più ferocemente, più subdolamente, alle spalle e di nascosto. E i nostri temi e le nostre proposte azzerate dalla violenza.

E’ stata una trappola e noi ci siamo cascati. Se ne dovrà parlare ancora, ma adesso bisogna venirne fuori.

Con i fatti di Genova il movimento emerso a Seattle entra nella fase acuta del conflitto. In Italia, rispetto ad altre fasi storiche di lotta di piazza, questa volta c’è la novità delle Rete di Lilliput: centinaia e centinaia di associazioni – che quotidianamente lavorano sui temi sociali ed ecologici – le quali, riunite nei nodi locali, hanno fatto la scelta della nonviolenza. La Rete di Lilliput all’interno del movimento di lotta ha, e deve mantenere e rinforzare, un proprio ruolo fondamentale, delicato e insostituibile: quello di percorrere la strada stretta che passa tra l’assenza di conflitto da un lato e il conflitto violento dall’altro (che conduce alla repressione e ad una nuova stabilizzazione) ossia di lavorare alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento. La Rete di Lilliput deve investire le proprie energie per impedire che un conflitto che coinvolge l’umanità e la natura intera venga condotto nel cul de sac dello scontro con la polizia (nel quale il potere vuole condurlo ed ha dimostrato di saperlo fare benissimo); per trovare la via d’uscita dalla polarizzazione tra due soggetti antagonisti (contestatori vs forze dell’ordine) che consente al resto del mondo di rimanere spettatore; per non concedere a nessuno la possibilità di restringere il conflitto ad affare tra noi ed il potere, ma lavorare per estenderlo, generalizzarlo, portarlo tra tutti, coinvolgendo la gente affinché cominci, grazie alle nostre azioni, a sentirsi interiormente in conflitto con se stessa ed il proprio stile di vita e di consumo. Si tratta di trasformare, lentamente ma profondamente, il consenso che sostiene il sistema in dissenso ed il dissenso in azione.

Gli obbiettivi di mantenere la possibilità di agire nelle piazze, di ridurre al massimo la possibilità di degenerazioni violente, di mettere il potere nell’impossibilità – o nella difficoltà estrema – di utilizzare il suo apparato repressivo e di comunicare a più persone contemporaneamente le nostre ragioni, possono essere tenuti insieme oggi, a mio avviso, solo declinando la modalità lillipuziana reticolare (…) anche come strumento di mobilitazione. A tal fine bisogna, per un verso, lasciare modalità di azione ormai usuali ma sempre più inefficaci o addirittura controproducenti:

1) abbandonare la rincorsa dei vertici del potere: uscire dalla subalternità degli spazi e dei tempi di manifestazione imposti dalle loro agende, che ci portano a scendere in piazza dove e quando vogliono i potenti;

2) uscire dalla logica della uguaglianza nella diversità, e della contemporaneità, delle forme di lotta, adottata dal GSF: le forme che non sono coerentemente nonviolente nei mezzi, nei fini, nella comunicazione, nell’immagine, fanno il gioco del potere. Non bisogna manifestare dove manifestano compagni di strada che non condividono le nostre forme.

3) uscire dalla logica delle manifestazioni di massa che, in questa fase, sono il ricettacolo di coloro che intendono sfidare il potere sul piano, reale o simbolico, della forza e sempre più si trasformano in campi di battaglia, a tutto vantaggio di chi vuole criminalizzare il movimento.

Per altro verso, bisogna strutturare una modalità di azione nuova, nonviolenta, lillipuziana, reticolare [la quale] – se attuata con persuasione, preparazione e organizzazione – è capace di portare efficacemente le nostre tematiche sui nostri territori, di comunicare a viso aperto con i nostri concittadini che spesso ci conoscono – conoscono il nostro impegno e lavoro quotidiano – e sanno che non siamo vandali calati da chissà dove, di impedire le infiltrazioni di provocatori, di rendere inutilizzabile l’apparato repressivo del potere sia nella forma violenta che in quella disinformativa, perché senza alcun alibi e perché tutto si svolge sotto gli occhi della nostra gente e della stampa dei nostri paesi e città.

Questa è la strada che avevamo provato ad indicare già ai tempi di Marina di Massa. Allora fu minoritaria. Oggi rinnoviamo l’appello: che almeno la Rete di Lilliput cambi la propria strategia, subito, e indichi una via di azione ai tanti ragazzi che oggi la cercano e sono delusi e frastornati per quanto vissuto o visto a Genova”

La globalizzazione della violenza

Ma quella estate tragica non si concluse a fine luglio a Genova: l’11 settembre a New York sarebbe avvenuto qualcosa che avrebbe aggiunto violenza a violenza, spalancando le porte ad una guerra, non più a dimensione cittadina ma globale, che vent’anni – e centinaia di migliaia di morti – dopo non si è ancora conclusa, nonostante il ritiro militare dall’Afghanistan.

Lo raccontavo così su Azione nonviolenta di dicembre 2001

L’11 settembre 2001 a New York non sono solamente morte 5000 persone, ma si è manifestata, in maniera tragica e simbolica, la crisi del sistema-mondo che l’Occidente ha costruito. Un sistema nel quale la minoranza ricca – della quale facciamo parte noi tutti – sperpera l’86 % delle risorse del pianeta costringendo alla morte, nel silenzio e nel buio delle televisioni, 35.000 bambini al giorno per fame; nel quale 200 persone possiedono una ricchezza pari a circa il prodotto globale lordo della metà più povera dell’umanità e nel quale ci illudiamo follemente di garantire la sicurezza non attraverso la giustizia per tutti ma la difesa militare dei privilegi per pochi.
La risposta dei governi alla crisi è la guerra, che è tutta interna ed anzi aggrava la crisi stessa. La guerra ha come obbiettivo non certo di sconfiggere il terrorismo – è piuttosto il modo più efficace per alimentarlo – ma di garantire all’Occidente, ed agli USA in primo luogo, per qualche anno ancora, gli ultimi rifornimenti di petrolio dell’Asia centrale, prima che la “crisi sistemica globale”, innescata dall’esaurimento dei pozzi, entri nella fase acuta e faccia crollare, con una violenza infinite volte superiore a quella delle Due Torri, il mondo che abbiamo costruito sul profitto e sulla crescita (1).
Ed i governanti del mondo, assolutamente irresponsabili, si preoccupano di terminare il proprio mandato elettorale garantendo, ai già garantiti, qualche altro anno di illusione di benessere, incuranti del muro dell’insostenibilità sociale ed ambientale contro il quale stanno portando velocemente – d’accordo con i decisori economici delle istituzioni internazionali e della multinazionali – a impattare l’umanità e il pianeta.

Di fronte alla incapacità imbelle di leggere i segni di crisi – mista alla volontà di perseverare sulle strade della violenza strutturale del sistema e della violenza diretta della guerra a sua difesa – da parte delle élite elette e non elette, la responsabilità di agire rimane tutta ai popoli della terra i quali, in questi anni, pazientemente, hanno costruito quel “movimento dei movimenti” che ha visto la sua emersione a Seattle e poi via via tutta una serie di mobilitazioni internazionali – passando per l’appuntamento costruttivo di Porto Alegre – fino alla contestazione del G8 di Genova nel luglio scorso.
Il conflitto sociale ed ecologico, che ha costantemente accompagnato il capitalismo in tutta la sua costruzione ed espansione, è dunque nuovamente assunto ed agito nelle strade e nelle piazze da parte di coloro che operano la resistenza alla sua violenza e ne costruiscono e, in molti casi, praticano le alternative. Oggi la posta in gioco è altissima e sempre più chiara e ravvicinata, ne va del futuro della terra e dei sui abitanti. Pertanto il movimento di lotta in atto non può permettersi di fallire nel suo obbiettivo di trasformare in senso nonviolento le strutture profonde, economiche e culturali, della società.
Ma con i fatti di Genova – nella loro drammaticità e con le dolorose ferite fisiche e morali ancora aperte – il movimento è entrato nella fase acuta del conflitto. Nella fase in cui maggiormente corre, da un lato, il rischio di involuzione verso derive violente, oltretutto inefficaci e controproducenti e, dall’altro, specularmente, il rischio della criminalizzazione e della repressione feroce e illiberale. Entrambi i rischi possono condurre alla fine del conflitto, all’azzeramento del movimento e delle sue speranze di cambiamento, al peggioramento complessivo delle condizioni dell’ambiente e degli umani al Nord come al Sud, al via libera definitivo alle guerre per il petrolio prima, per l’acqua poi e di tutti contro tutti, infine, senza più nessun argine di resistenza e alternativa politica.

Se già nel ‘500 Etienne de La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria, ha evidenziato come le vere radici del potere stanno nella “complicità” di chi lo subisce, questo è ancor più vero oggi, in Occidente, nel sistema di capitalismo avanzato. Il sostegno principale al sistema non è dato tanto dall’esercito o dalla polizia quanto da quel venti per cento di cittadini del mondo ricco che da un lato dissipa le risorse economiche, ecologiche ed energetiche di tutti e dall’altro comincia a pagarne le conseguenze (mucche pazze, ogm, cambiamento climatico, insicurezza sociale, terrorismo ecc.).
“Il capitalismo è sostenuto più dall’adesione passiva che dalla forza. – spiega Brian Martin – Nelle società capitalistiche le persone vivono la loro vita quotidiana invischiate in una rete di credenze e di piccole azioni che costantemente ripresentano loro ciò che è possibile e desiderabile. Quando la gente consuma un pasto pronto, vede e ascolta la pubblicità, indossa abiti firmati, aspira a ulteriori possessi materiali e si adatta a competere in un mercato del lavoro rigido, ecco che si trova coinvolta in comportamenti e sistemi di credenze che riflettono e riproducono uno stile di vita dominato dal capitalismo. Se molti disobbedissero alle leggi, l’intervento della polizia o dell’esercito potrebbe essere controproducente o inutile, ma il fatto è che quasi tutti si adeguano al sistema, anche coloro che gli sono contrari. Si tratta dunque di elaborare una politica che distrugga le credenze del capitalismo e che dia impulso ed espansione a una nuova sfida”.
Ed esattamente questa è la sfida che ha di fronte il “movimento dei movimenti”: continuare a rincorrere i vertici dei potenti, trasformati ormai in abili trappole, agendo un conflitto di piazza aspro, ed anche violento, che rimane in superficie perché tende a polarizzarsi nello scontro con le forze dell’ordine – consentendo alla gente di rimanere spettatrice di qualcosa che, sostanzialmente, sente lontano, estraneo e non capisce – oppure avviare una trasformazione del conflitto in senso nonviolento, meno spettacolare, forse, ma che mira più in profondità perché alla ricerca della comunicazione efficace con tutti, avendo come interlocutori principali i cittadini, terze parti fondamentali nel confronto tra il movimento ed il potere – perché di esso sono appunto il puntello – attraverso la messa in campo di strumenti di azione inediti che proprio i cittadini persuadano e coinvolgano sui loro territori. “Se un tratto sembra caratterizzare tutte le più nuove ed efficaci azioni di resistenza e di contrasto agli effetti perversi dell’assolutizzazione dell’economia e della globalizzazione finanziaria – scrive a questo proposito Marco Revelli – è che esse muovono, per così dire, <<al livello del suolo>>. Che si costituiscono dentro le pieghe del territorio – l’elemento più sfidato ed insieme più attivo nel quadro della competitività globale. In una parola , che fondano la propria pratica dal basso, per poi identificare singoli momenti, luoghisimbolici, eventi (si pensi a Seattle) in cui rappresentare la propria vocazione globale”. Si tratta, insomma, di dare priorità al radicamento ed al progettare insieme il cambiamento culturale, economico, sociale e politico dei territori locali, piuttosto che svolgere pellegrinaggi dell’antiglobalizzazione verso le “zone rosse” dei santuari globali.

La strategia di trasformazione nonviolenta del conflitto passa anche attraverso le azioni dirette nonviolente, che fondano la loro efficacia ed incisività sulla capacità di comunicare a più persone le ragioni della propria iniziativa politica acquisendone la simpatia, il consenso ed infine l’alleanza. Esse agiscono tanto sull’avversario – le strutture da trasformare impersonate di volta in volta da coloro nei cui confronti si rivolge l’azione – del quale si cerca il cambiamento, quanto su coloro che si considerano neutrali – inconsapevoli del proprio essere i “servitori volontari” del sistema – dei quali si cerca la persuasione, la “conversione” ed infine la disobbedienza. Dopo la trappola di Genova, le azioni nonviolente possono consentire di tenere insieme la realizzazione degli obbiettivi essenziali con la possibilità democratica di agire liberamente tra la gente, la riduzione al minimo del rischio di degenerazioni violente delle mobilitazioni con la messa del potere nell’impossibilità – o nella difficoltà estrema – di dispiegare il suo apparato repressivo. (…)
Perciò è necessario – e presto – lavorare alla trasformazione del conflitto in senso nonviolento, per riuscire a tenere conto allo stesso tempo dei diversi livelli nei quali si esprime la violenza, della pluralità degli attori coinvolti nel conflitto e della molteplicità delle sue dimensioni. Non è certo una scelta di moderazione, è piuttosto una scelta di azione in profondità che non si arresta alla superficie della rincorsa, a dispersione energetica, degli avvenimenti indotti dagli avversari. “La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata” scriveva Aldo Capitini molti decenni orsono, e parlava dell’oggi.”

Negli anni successivi la violenza bellica, economica, ambientale e poi anche pandemica – com’era previsto e prevedibile – è esplosa in tutta la sua virulenza, ed oggi c’è una nuova generazione di movimenti che prova a resistere, cercando di dettare un’agenda nuova e diversa alla politica nazionale e globale. E nonostante la trappola di Genova avrebbe potuto generare una nuova tragica stagione di lotta armata, come accaduto nel Novecento – e forse grazie anche al lavoro formativo lillipuziano fatto dopo Genova, dal basso, su molti territori – la scelta della nonviolenza sembra ormai implicita e irreversibile. Quello che manca ancora ai movimenti è, invece, la capacità di coinvolgere tutti in un conflitto per il diritto al futuro, che riguarda tutte e tutti senza che però la maggior parte ne sia consapevole. E’ la rassegnazione all’ineluttabile di un immaginario colonizzato dalla violenza culturale l’avversario oggi più temibile. Ma un altro immaginario è ancora possibile e necessario, quindi bisogna costruirlo.


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