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Economia & Impresa sociale 

Il soffio del drago sull’Europa

di Marcello Esposito

Può Draghi diventare il peggior nemico dell’Europa dei popoli? Sembrerebbe blasfemo anche solo formulare una domanda del genere, dopo tutti gli sforzi (tassi azzerati, QE, …) che la BCE ha fatto sotto la sua Presidenza per tenere in piedi l’Eurozona. Eppure nel suo ultimo discorso a Sintra, in Portogallo, c’è una intonazione diversa. Draghi è stato più esplicito del solito nel far capire cosa intende per riforme strutturali e flessibilità sul mercato del lavoro. E purtroppo quello che si intravvede è così in contraddizione con l’idea di società che abbiamo in Europa, da far pensare che un tale approccio possa portare ad una contraddizione sempre maggiore tra l’impostazione liberista dell’Europa “finanziaria” e l’impostazione sociale dell’Europa “reale”. Ovviamente, nei commenti apologetici pubblicati nel weekend non c’è traccia di queste mie preoccupazioni. Basta nominare la parola magica “riforme strutturali” e le maggiori firme del giornalismo nostrano partono con gli applausi. Ma qualcuno la testa ce l’ha ancora. E un osservatore acuto come Pietro Ichino su La Stampa legge correttamente le indicazioni di Draghi e ne trae le logiche conseguenze per il mercato del lavoro italiano: introduzione di un salario minimo nazionale unico e possibilità per il livello aziendale di contrattazione di derogare ai minimi nazionali di settore (ovviamente più elevati). Per Ichino l’idea di Draghi è corretta. Per me, come vedremo, invece vale esattamente il contrario e a mio parere è la strada più sicura per distruggere l’Europa. Sostanzialmente, Draghi parte dalla considerazione (banale ma corretta) che con la rinuncia alla sovranità monetaria non è più possibile aggiustare il divario di competitività tra i diversi sistemi-paese dell’eurozona con la svalutazione del cambio. Il salario reale (W/P) di un lavoratore italiano deve essere pari alla sua produttività. Con il regime pre-euro, se la produttività scendeva rispetto a quella di un lavoratore tedesco, il salario reale si sarebbe aggiustato facendo svalutare la lira ad esempio del 30% rispetto al marco tedesco. Adesso che con l’euro non è più possibile svalutare la lira e creare inflazione, bisogna agire direttamente sui salari nominali. E quindi i lavoratori italiani, secondo il ragionamento di Draghi, dovrebbero accettare una riduzione del 30% del proprio stipendio. Solo così, ragiona Draghi, si riduce la disoccupazione e riparte la crescita. Ovviamente, nessun politico di nessun paese che non sia in default accetterebbe mai esplicitamente il consiglio di Draghi. La reazione greca ai 5 anni di cura della Troika è sotto gli occhi di tutti: i principali partiti azzerati, un partito di estrema sinistra al potere, un partito neo-nazista che si riscalda a bordo campo. Ma quale potrebbe essere il modo in cui ottenere lo stesso risultato, in maniera graduale e senza che l’opinione pubblica possa accorgersene e individuare il “colpevole”? Come dicevamo, il cavallo di Troia rischia di essere il combinato disposto di una “cosa di sinistra”, il salario minimo, in accoppiata con “una cosa di destra” come la possibilità che la contrattazione aziendale possa derogare ai salari minimi dei contratti nazionali di settore. Vediamo perché non è una buona idea consentire alle singole aziende di derogare al minimo contrattuale di settore per spingere i lavoratori ad accettare il più basso salario minimo nazionale, che per sua natura sarebbe posizionato su un livello di sussistenza e in ogni caso indipendente da qualsiasi concetto di anzianità, specializzazione, etc etc. In primo luogo, i mercati sono molto più complessi di quelli estremamente semplificati che utilizzano le banche centrali. La rigidità nominale dei salari nominali, così come di una serie innumerevole di altri prezzi, non deriva da comportamenti irrazionali degli operatori economici che devono essere “corretti” dalle riforme strutturali (incredibile che si debba difendere la razionalità dell’uomo contro l’impostazione ultra-liberista di certe riforme strutturali). La massima flessibilità si ha nei campi di pomodoro della terra dei fuochi o delle campagne siciliane. Non ci sono contratti, non c’è sindacato, il prezzo della manodopera cambia di giorno in giorno. Anzi di ora in ora. Lo stesso accade ovviamente in tutti i paesi più disastrati del globo terracqueo. Nei paesi più avanzati, il rispetto tra lavoratori e datori di lavoro, su cui si basa tutto il capitale sociale che rende “grandi” i paesi industrializzati, esige che alcune regole non siano mai violate. Tra queste regole c’è il fatto che se l’azienda ha problemi, i lavoratori possono provare a derogare ai contratti, rinunciando temporaneamente alle ferie, accettando di lavorare più intensamente o di ricevere aumenti di stipendio solo a fronte di aumenti di produttività o altre forme di flessibilità e sacrifici temporanei. Ma deve essere chiaro che l’azienda non può contare su un livello di salari di pura sussistenza per rimanere in piedi. Il motivo è chiaro e non è catturabile dai modelli iper-semplificati delle banche centrali. Dato il diverso rapporto di forza tra lavoro e capitale si genererebbe una corsa verso il basso che farebbe prevalere le aziende tecnologicamente meno avanzate e che farebbe collassare la domanda aggregata. Le logiche perverse dell’azione collettiva sono state studiate ampiamente in teoria dei giochi, ma i modelli delle banche centrali non possono inglobare la teoria dei giochi perché diventerebbero troppo complessi. Per capire la loro semplicità, al limite della inutile banalità, basti pensare che non prevedono l’esistenza di un sistema finanziario, di una banca centrale, … E non è un caso che non sono in grado di prevedere né una crisi e nemmeno il PIL del prossimo trimestre. Nel contesto culturale e sociale italiano ed europeo derogare dai minimi salariali dei contratti nazionali racchiude in sé il rischio di una rincorsa pericolosa verso modelli produttivi e specializzazioni industriali a basso valore aggiunto e senza alcun futuro per l’Italia, Ma poi perchè guardare sempre al settore privato. Non è che il pubblico impiego può rimanere sempre fuori da ogni riforma del mercato del lavoro. Anche perché a Bruxelles quello che importa è l’equilibrio delle finanze pubbliche e prima o poi la spending review i paesi dell’eurozona la devono fare. E se c’è un settore dove il costo del lavoro è una componente preponderante del costo complessivo questo è il settore pubblico. Proviamo a ragionare per assurdo e ad andare su un terreno molto delicato per il governo. Cosa succederebbe se questa proposta venisse applicata alla Pubblica Amministrazione? Ad esempio, la Buona Scuola fa dell’autonomia scolastica un suo punto qualificante ed in effetti dal punto di vista di un banchiere a Francoforte è assurdo che ci sia un contratto unico che copra il Parini e il più scassato liceo dello Stivale. La differenza di stipendio non può solo essere in positivo, ragionerebbe il banchiere ultraliberista di Francoforte. Magari in certe regioni e in certe zone, sfruttando le leggi della domanda e dell’offerta, si potrebbe spingere per stipendi inferiori non solo ai minimi del settore pubblico, ma anche del settore privato. D’altro canto, il prezzo non deve riflettere la qualità della merce e il costo opportunità delle alternative? La qualità dell’output è scarsa e voglio vedere, penserebbe il draghetto, se l’insegnante rinuncia alla cattedra per andare a raccogliere pomodori in competizione con i clandestini. Ma è lì che vogliamo arrivare? Come Marchionne ha dimostrato, le auto in Italia si producono indipendentemente dal fatto che il lavoratore italiano costi più di quello serbo.


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