Welfare & Lavoro

Essere mainstream

di Flaviano Zandonai

Mentre in campo non profit proseguono i festeggiamenti per il BES arriva il Social Progress. Si affolla il campo degli indici che ambiscono a sostituire o completare il Prodotto Interno Lordo. L’ultimo in ordine di tempo è di derivazione Harvard Business School e nell’advisory board c’è Michael Porter, autore, insieme a Mark Kramer, del pluricitato saggio sulla produzione di valore condiviso. La presentazione ufficiale è avvenuta durante lo Skoll World Forum a Oxford, probabilmente il principale evento mondiale dedicato all’imprenditoria sociale che scaturisce dalle business school dell’economia capitalista.

Si potrebbe aprire un bel dibattito su struttura e sulle modalità di applicazione dei diversi indici, comparando, se possibile, le metriche. Quelli del Social Progress hanno già iniziato a farlo puntando in alto, ovvero all’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, annotando continuità e discontinuità dei vari paesi inseriti nella classifica. Un aspetto importante perché, come avvertiva uno degli speaker a Oxford: “Visions without metrics are hallucinations”.

Ma c’è un aspetto ulteriore da considerare, ovvero la diversa capacità (e velocità) di rigenerare la conoscenza prodotta all’interno dei diversi paradigmi. In particolare colpisce il modo in cui il pensiero economico mainstream, quello più diffuso e importante, riesce a incorporare elementi tipici dei sistemi alternativi, soprattutto per quanto riguarda le componenti di socialità. Per alcuni osservatori, in particolare in campo non profit, si tratta di un mero riposizionamento, una sorta di lifting concettuale, un pò come avviene in campo ambientale con le pratiche di greenwashing. In realtà la questione è più complessa e questo giudizio – esso stesso mainstream nel pensiero “alternativo” – è frutto di una rappresentazione eccessivamente semplificata dei fondamenti conoscitivi alla base del modello dominante. Dentro i paradigmi – posto che esistano – le posizioni sono molto più articolate e questa loro articolazione consente di attrarre ed elaborare nuovi modelli emergenti anche al di fuori dei propri ambiti.

Qualche tempo fa il domenicale del Sole 24 Ore dedicava un ricordo ad Armen Alchian, economista morto centenario e famoso per i suoi studi sulla proprietà privata, ovvero uno dei pilastri del capitalismo. Leggendo l’articolo si evidenziavano però alcuni spunti interessanti perché poco allineati al mainstream. Ad esempio Alchian criticava le posizioni di colleghi che definivano le imprese come corpi a se stante rispetto all’ambiente esterno, sostenendo invece che si tratta di forme organizzative composte dalla stessa sostanza dei sistemi socio economici in cui operano. Il tutto confrontandosi su una metafora che considerava le imprese come grumi di burro che si coagulano nel secchio del latte. E ancora rendeva giustizia al tanto vituperato homo oeconomicus, spesso rappresentato come un fantoccio egoista, mentre invece si tratta di un soggetto mosso dall’obiettivo dell’efficienza e da una funzione dei ricavi che è certo economica e di utilità, ma anche di soddisfazione interiore.

Ci sono quindi due percorsi da seguire. Il primo è di non essere troppo schizzinosi e di cercare anche nel pensiero dominante elementi conoscenza utili a comprendere meglio il ruolo degli attori sociali. D’altro canto si dovrebbe lavorare per arricchire di sfaccettature interne paradigmi alternativi che paiono troppo schematici e quindi eccessivamente rigidi nel leggere un contesto dove a dominare non sono le contrapposizioni radicali – sociale vs non sociale, pubblico vs privato, market vs non market – ma piuttosto le diverse modalità attraverso cui soggetti differenti mischiano queste qualità. Se fosse una gara, a vincere sarà chi per primo saprà concettualizzare queste nuove forme di azione economica e sociale e, soprattutto, saprà misurarne i risultati.


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