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Non ci resta che Rifkin?

di Flaviano Zandonai

Promesso. La prossima volta conterò fino a dieci (o anche oltre) per tenere a bada il mio troll. Quel cattivone, infatti, mi fatto postare un tweet un po’ acido nei confronti della ricerca economica e sociale che appare sempre un passo indietro rispetto al riconoscimento e all’analisi dei fenomeni di innovazione. La scusa è un articolo di Jeremy Rifkin sul New York Times che annuncia il suo nuovo libro dedicato all’economia a marginalità zero. Le tecnologie dell’informazione e della conoscenza, ma anche quelle della nuova manifattura, provocano, secondo Rifkin, una progressiva e inesorabile erosione delle marginalità economiche dei modelli di business che sono alla base dell’imprenditoria tradizionale. L’internet che è nelle cose e dappertutto consente di essere più attivi nei processi produttivi e meglio in grado – grazie anche alla maggior disponibilità di conoscenze – di accedere a beni e servizi gratuitamente o a costi contenuti, spesso anche grazie a transazioni non di mercato (donazioni, scambi, baratti…). Il risultato di questa trasformazione si riverbera a livello di governance di un sistema economico dove condivisione e socialità la fanno da padrone. E Rifkin individua nell’affermazione di nuove genie nonprofit e cooperative la soluzione controbilanciare, perché più coerenti col nuovo assetto, lo strapotere delle Corporation della new economy.

L’avessi mai fatto: il tweet è stato oggetto di una discussione piuttosto accesa e anche le e-mail di segnalazione inviate a colleghi non hanno sortito miglior esito. “Fuffologo” è stato il miglior complimento riservato all’autore dell’articolo.

Il problema però rimane. Rifkin (o chi per lui) prospera nella misura in cui i percorsi della ricerca “vera” faticano a riallinearsi sui processi di innovazione. Da quanto tempo la rivoluzione “disruptive” del digitale chiama in causa il carattere sociale delle organizzazioni? Eppure le uniche risposte in termini di conoscenza attivabile vengono dal campo delle più classiche scienze del management che coniano singolari etichette come “social enterprise” per riferirsi ad aziende che applicano la logica del social networking ai rapporti con i suoi principali portatori di interesse (lavoratori e clienti).

Ma il cambiamento è all’orizzonte. E i pionieri già all’opera. Il motore è horizon2020 il nuovo programma europeo di finanziamento della ricerca che spinge come mai in precedenza su una produzione scientifica ad elevato “impatto” nei processi imprenditoriali. I pionieri sono alcuni progetti già attivi grazie a fondi della precedente programmazione. Tutti, o quasi, hanno spiazzato i centri di ricerca più consolidati in campo nonprofit e imprenditoria sociale, mettendo a valore una conoscenza generata attraverso metodologie e fonti forse poco ortodosse ma evidentemente più efficaci per leggere l’attualità dei processi trasformativi.

Domani si terrà un’importante conferenza scientifica sui risultati del Censimento Istat del nonprofit. Scorrendo nomi e contenuti non sembra essere cambiato moltissimo da un decennio a questa parte (la data del primo censimento). Ma forse è solo questione di tempo..


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