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A lezione di resilienza dalla grande guerra

di Flaviano Zandonai

“Coltivare la memoria”. Quante volte abbiamo sentito questa frase per spiegare – forse per giustificare – il senso di iniziative che hanno l’obiettivo di riportare al contemporaneo frammenti materiali e immateriali della nostra storia. Lo stesso sta accadendo per il centenario della Prima Guerra Mondiale. Nel caso della grande guerra l’impressione è che la “coltura” della memoria sia particolarmente estesa e diversificata nel tempo e nelle modalità di espressione. E’ per questo che il primo centenario si può considerare l’acme di un percorso ininterrotto che ha alimentato un pluriverso di iniziative. Una storiografia dove i caratteri di scientificità e di ufficialità sono spesso “imbastarditi” da microproduzioni dal basso, generando una memoria ricca e multiforme ma anche, inevitabilmente, ambivalente e controversa.

L’anniversario del 2014 è quindi importante per rinverdire il ricordo, ma soprattutto per estrarre una riflessione non solo contingente, legata all’evento in sé, ma universale. Può aiutarci, in altri termini, a capire come si coltiva la memoria e quali frutti scaturiscono da questa coltivazione. Da questo punto di vista assumono una rilevanza centrale i processi e le forme di riappropriazione di un evento bellico che, come le artiglierie cent’anni fa, ha causato un’onda d’urto che dal punto di impatto si è propagata, perdendo via via di intensità ma allargando il raggio. Ecco, l’insegnamento principale sta proprio nella capacità di assorbimento dell’impatto. La Prima Guerra Mondiale è stata una drammatica palestra di resilienza che ha riguardato le persone, le comunità e financo l’ambiente. Tutti colpiti colpiti da un formidabile shock, peraltro amplificato da quel che è successo prima e dopo. Il prima è un periodo storico caratterizzato da un irripetibile mix di positivismo scientifico che ha industrializzato la volontà di potenza e da una pulsione destrutturatrice interiore e sistemica ammantata dalle luci della belle époque. Il dopo è un doloroso dopoguerra (anche per i vincitori). Una catena di eventi verso i successivi e ancor più drammatici fatti bellici che nessun armistizio riuscirà a spezzare.

La resilienza delle comunità investite dalla grande guerra, soprattutto quelle situate nelle zone del fronte, è particolarmente interessante perché esemplifica i principali caratteri di questo processo: la robustezza (resistere allo stress senza deteriorasi), la ridondanza (sostituire un elemento compromesso con un altro) e la rapidità (accedere e utilizzare velocemente le risorse disponibili). Gli esempi sono molteplici e di segno diverso. Basta pensare ai “recuperanti” che nel primo dopoguerra hanno smantellato fortificazioni e trincee per ricavarne materiale ferroso da rivendere, dando vita a una nuova economia dal potere distruttivo più efficace della guerra stessa. Oppure, in tutt’altro ambito, si pensi al fiorire di micromusei nei luoghi più disparati senza seguire i dettami della museologia, spesso in posizione border line rispetto alla semplice appropriazione di residuati bellici. Eppure, oggi, se si vuole “coltivare la memoria” bisogna mettere in rete anche queste risorse spontaneistiche e volontaristiche a fronte della crisi in cui versano molte istituzioni ufficiali, non solo per i famigerati “tagli alla cultura” ma, più in generale, per la difficoltà a riattualizzare il loro modello di servizio. E allo stesso modo bisogna finalmente imparare a promuovere una nuova “economia di guerra” – fortemente connotata in senso sociale – utilizzando le spoglie del conflitto per iniziative in campo storico culturale, turistico, ambientale che possono contribuire, ieri come oggi, alla resilienza dei territori dove cent’anni fa si combatteva.

 


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