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Welfare & Lavoro

Abitare l’ecosistema

di Flaviano Zandonai

Forse è vero che se ne parla troppo e anche a sproposito. Ma mai come in questa fase sono molti i soggetti che provano a dar vita – o a infrastrutturare meglio – ecosistemi di innovazione sociale. La spinta viene soprattutto “dalla base”, ovvero da persone e organizzazioni che giocano la partita della social innovation in prima linea, cercando attivamente soluzioni a sfide sociali che richiedono innovazioni non solo di prodotto e di processo, ma di sistema, in grado cioè di incidere sui modelli di economia e società e di conseguenza sul disegno delle politiche. Questa è la sfida dell’impatto sociale e delle sue metriche. Tutto il resto è (degnissima) rendicontazione sociale. La spinta ecosistemica per via endogena era ben visibile alla due giorni “abitare una casa tenutasi a Torino la scorsa settimana. Un evento da tutto esaurito dove a fare la parte del leone erano decine di buone pratiche di rigenerazione di beni immobili e spazi pubblici per finalità sociali. Esperienze che esondavano dati esperienziali, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei processi di coinvolgimento e la conseguente ricostruzione delle comunità locali. Ma che erano altrettanto forti quanto a consapevolezza rispetto alla capacità di incorporare in questi processi innovazioni significative nel campo del welfare, delle politiche culturali, della tutela dell’ambiente, dei nuovi modelli di produzione e consumo. Una forza dal basso per la quale si può tranquillamente spendere l’attributo “generativo” senza temere di abusarne.

Ma un ecosistema non è fatto solo di azioni dal basso e coordinamento orizzontale perché l’innovazione (anche quella sociale) chiede di essere scalata non solo per esigenze di sostenibilità economica, ma soprattutto per amplificarne l’impatto nella prospettiva del cambiamento sistemico di cui sopra.

Ecco quindi che al pieno delle pratiche si contrappone il vuoto delle risorse a supporto dell’ecosistema. Nonsi tratta beninteso dei classici “servizi tecnici” allo sviluppo forniti da una qualche agenzia che opera nel retrobottega di network con funzioni di coordinamento. Si tratta piuttosto di un complesso ampio e variegato di risorse che diversi soggetti mettono a disposizione per favorire la crescita di queste iniziative puntando sia sull’adattabilità al contesto locale (scaling deep) sia nel replicare modelli di servizio e di business in ambiti diversi (scaling wide). Senza queste due componenti non si realizza una vera e propria trasferibilità dell’innovazione, col rischio che gli ecosistemi si chiudano in sperimentazioni di nicchia incapaci di modificare lo status quo o, all’opposto, vedano colonizzati elementi di valore troppo blandamente condivisi.

L’impressione comunque è che i vuoti stiano per essere colmati. Lo si nota in particolare guardando agli attori filantropici che agiscono un ruolo strategico sempre più deciso nell’infrastrutturare l’innovazione sociale come ecosistema. Ricercano, ad esempio, una complementarità più spinta tra risorse proprie e di altra natura (fundraising, crowdfunding, finanza a impatto sociale). Agiscono poi come soggetti di venture, partecipando cioè al “rischio d’impresa” di iniziative particolarmente rilevanti anche a livello di governance. E come già ricordato spingono su valutazioni che mettano in luce il valore creato non solo per “gruppi target”, ma per più ampi contesti territoriali guardando alla coesione sociale ma anche a misure “hard” di natura economica e occupazionale.

Anche gli attori della conoscenza provano – con una certa fatica – a recuperare posizioni in un contesto di innovazione aperta dove le pratiche, ancora loro, sfornano semilavorati in attesa di nuovi modelli analitici e interpretativi. Iniziative come la Human Factory dell’innovazione sociale vanno (o dovrebbero) andare in questa direzione. Anche in questo caso si tratta di una struttura di conoscenza che letteralmente poggia su un luogo – Cascina Triulza – denso di esperienze alternative al contesto socioeconomico dominante (Expo e post Expo), ma che accetta la sfida del dialogo e soprattutto della cross-fertilization. Solo così la conoscenza può operare in chiave ecosistemica: contribuendo a definire cornici di senso in ambienti ricchi di peculiarità e ambivalenze (apporto fondamentale soprattutto per costruire politiche) e sostenendo l’attivazione dei molti e diversi soggetti che questi ecosistemi li vogliono abitare.


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