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Un pensiero per chi non c’è più

di Franco Bomprezzi

Sono i giorni nei quali si rende omaggio alla memoria di chi ci ha lasciato. Io non amo andare in cimitero, mi riempie di eccessiva tristezza, mi porta a una commozione che vorrei decidere senza subirla. Però ci penso. Come tutti i giorni, del resto, non solo il 2 novembre. Ricordo mio padre Roberto, mia madre Rosalia, e la donna che ha condiviso con me 21 anni di vita e di passioni, Nadia. La mia esistenza sta proseguendo, arricchita dalla loro presenza nel cuore e nella mente, e sarà sempre così. Vado avanti, e mai da solo. Perché la vita è relazione, è mettersi in ascolto e persino a disposizione degli altri. Di mio fratello Marco, di mia nipote Marta. Della mia compagna Silvia, anche del mio strepitoso gatto Ibra.

Ma oggi penso soprattutto a quei genitori, e sono tanti, che nel mondo della disabilità vivono l’esperienza più dolorosa e innaturale. Sopravvivono ai loro figli. E’ la situazione più dura da pensare e da concepire, figurarsi quando la si vive davvero. Succede quando la disabilità è frutto di una situazione di patologia grave sin dalla nascita, o dai primi anni di vita. Quando le complicazioni sopraggiungono inesorabili – quanto previste – magari alle soglie dell’età adulta. Quando la disabilità si trasforma in non autosufficienza, e poi in bisogno di assistenza continua, ventiquattrore al giorno. Quando le forze e le cure non bastano. Oggi questi genitori, uomini e donne, spesso anziani o comunque non più giovani, meritano un pensiero speciale, affettuoso, fraterno.

Nei loro racconti, pieni di dignità e di pudore, a volte scorgo un duplice sentimento, complesso e delicato. Da un lato il dolore, lo strazio per l’ingiustizia di una perdita, che spesso avviene al termine di un percorso lungo, irto di difficoltà, di cure, di servizi cercati e a volte negati. Dall’altro il più nobile sentimento di amore, quello che si prova per chi finisce di soffrire, e si placa in una dimensione che non conosciamo per esperienza, ma che tutti vorremmo ci fosse, libera per sempre dai limiti di un corpo imperfetto. Ma poi, oltre a questo, c’è anche un improvviso senso di vuoto, di smarrimento. E’ come se la vita perdesse di colpo il suo significato, lo scopo stesso dell’agire quotidiano, sempre in salita, sempre pronti ad accudire, ad aiutare. L’agenda dei genitori, o comunque dei parenti più stretti, che si prendono cura in maniera totalizzante di persone con disabilità grave e gravissima, è implacabilmente fitta di scadenze, persino routinarie, essenziali e ineludibili, di giorno e di notte. Quando la morte fa venire meno questo impegno, è come se d’un tratto si dovesse ricucire il filo spezzato del destino e del proprio esistere. Il tempo aiuta, non solo a lenire le ferite del cuore. Ma spesso, fortunatamente, a trasferire sui vivi, sugli altri, sulle persone che vivono situazioni analoghe, questo patrimonio di esperienza, di forza, di coraggio. E’ così che sono nate molte fondazioni, che spesso portano il nome di un ragazzo o di una ragazza che non ci sono più.

Ecco perché vorrei un mondo nel quale il ruolo di cura parentale non sia così totalizzante ed esclusivo, al punto da creare, non raramente, ingiustificati sensi di colpa ogni volta che si torna a sorridere e a vivere quasi normalmente. E’ in questa dimensione che occorre ripensare e riempire di azioni concrete e non solo di fondi il nostro welfare, le politiche destinate a chi è più in difficoltà. E’ triste quel popolo che deve arrivare ad augurarsi la morte, per porre fine alle sofferenze e al disagio. Ci meritiamo di meglio. Questo, e non altro, sarebbe un modo giusto per rendere omaggio a chi oggi non è più con noi.

 


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