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A Lucca, a parlare di Abilità…

di Franco Bomprezzi

Già. Me lo hanno chiesto con garbo, dando quasi per scontato che avrei detto di sì. E aveva ragione Giulio Sensi, blogger e molto altro. Ho detto di sì. Poi mi sono reso conto dell’enormità. Chi sono io per parlare, al festival del Volontariato di Lucca, di “abilità”? Non ho titoli accademici, sono al massimo un cavaliere a rotelle, e un giornalista da tanto tempo. Poi, fra l’altro, convivo dalla nascita con una “dis-abilità”, frutto degli esiti impazziti del dna, che ha giocato al piccolo chimico, regalandomi ossa fragili e testa dura.

E soprattutto, che cosa vuol dire, oggi, parlare di “abilità” in un mondo che costantemente ti chiede di essere “performante”, “veloce”, “flessibile”, possibilmente anche “bella presenza”? Ho accettato da incosciente, ora lo so. Curiosamente mi introdurrà, sabato mattina, uno dei protagonisti dell’associazione “Diversamente disabili” che molto concretamente racconta esperienze possibili di promozione dello sport, anche dopo una menomazione determinata da un incidente. La loro vivacità mi aiuterà a tagliar corto, e a non fare troppo il filosofo. Ma il punto resta.

Abilità è una parola strana. Viene dritta dal latino, da “habilis”. Dove, guarda un po’, c’è un “acca” che non si legge, è muta. Abile è dunque “colui che possiede”. Ma che cosa possiede? Direi soprattutto la percezione di se stesso. La stima di sé. Il rispetto per sé. Abilità è dunque avere cognizione delle proprie capacità, in qualunque forma si manifestino. E dunque mettere la persona al centro. Non lasciarsi guidare dagli altri, ma tornare alla saggezza dei greci: “conosci te stesso”. Abilità è il contrario di inganno, di ipocrisia, di pietismo. Non è è non deve essere una forzatura, ma una constatazione.

Parliamo di “abilità” perché ne conosciamo la versione “dis”. Senza il difetto, senza la mancanza, un ragionamento sull’abilità sarebbe fuorviante, assurdo, teorico. Il fatto è che il termine “abilità” è autoassolutorio per tutti coloro che sono convinti di essere “abili” e giudicano dunque, con il loro metro di supposta “normalità”, ogni situazione, ogni relazione umana. Il “dis”, questo prefisso di svantaggio, che a molti dà fastidio, crea agitazione emotiva, fino a preferire il “diversamente”, versione edulcorata e fuorviante della solidarietà umana, è invece un prefisso fondamentale per fotografare l’esistente, per renderne conto, per renderlo compatibile con il quadro delle relazioni, del contesto sociale, ambientale, culturale.

Orgoglioso della mia disabilità. Sì, posso dirlo. Non per rivendicare una specie di aristocrazia dell’handicap, ma perché mi sono reso conto, nel trascorrere degli anni e dei decenni, che il lungo lavoro interiore su di me, sulle mie abilità, sui miei difetti, sui miei limiti, sulle aspettative degli altri, sul pregiudizio e sullo stigma, sul senso della partecipazione, del servizio, del volontariato e della professione, mi ha plasmato fino a raggiungere uno stato di benessere mentale, e di relativa soddisfazione, che forse spiega come mai, adesso, mi si chieda di render conto anche dell’uso delle parole.

Le parole infatti sono pietre, sono mattoni. Possiamo, con le parole, erigere muri e pareti, oppure costruire ponti e pavimenti, delimitare finestre. “Abilità” oggi significa prima di tutto riconoscere la persona, accoglierla e accettarla così com’è, offrire opportunità, strumenti, supporti, perché le abilità di ciascuno siano a disposizione di tutti. Chi vive su di sé la disabilità può davvero essere una risorsa per un Paese impegnato ad affrontare il cambiamento e la crisi. Ma se rimane, invece, un peso e un problema, lo si deve, forse, a quell’idea balzana di abilità come “onnipotenza” e “superiorità”. Le abilità, ad esempio, comportano come corollario le “competenze”. E in questo senso le persone con disabilità, fisica, sensoriale, ma anche intellettiva, sono giacimenti di competenze, di esperienze, di soluzioni di problemi.

Il volontario si interroga spesso sul senso del proprio impegno, e quando incrocia, o cerca, la disabilità, spesso arriva a concludere di essere “arricchito”, di “ricevere” più di quanto in effetti si è donato, in termini di impegno, di tempo, di gratuità. Ecco, io penso che anche questo luogo comune andrebbe superato e rivisto. Penso al film “Quasi amici” e alla reciprocità della relazione. E’ lo scambio alla pari che ci deve guidare. E questa, forse, è la nuova “abilità” da costruire insieme.


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